David Keith Lynch (1946-2025) è una delle figure più enigmatiche e filosoficamente rilevanti del cinema contemporaneo. La sua opera rappresenta un caso unico nella storia del cinema, quello di un autore che ha saputo coniugare successo commerciale e sofisticazione teorica, industria hollywoodiana e sperimentazione radicale, narrazione classica e decostruzione postmoderna. Lynch proviene dalle arti visive. Prima di dedicarsi al cinema, studia pittura alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Filadelfia. Questa formazione pittorica segnerà profondamente la sua estetica cinematografica, caratterizzata da una attenzione ossessiva alla composizione dell’immagine, al colore, alla texture visiva. Non è un caso che molte scene dei suoi film sembrino quadri in movimento, tableaux vivants che cristallizzano un’atmosfera prima ancora che raccontare una storia.
Il suo primo cortometraggio, The Alphabet (1968), è un’opera sperimentale che anticipa molti dei temi che attraverseranno tutta la sua filmografia: l’irruzione del traumatico nella quotidianità, la violenza della socializzazione, l’angoscia che si cela dietro l’apprendimento e la normalizzazione. Seguono The Grandmother (1970) e il lungometraggio Eraserhead (1977), un incubo in bianco e nero sulla paternità, l’alienazione industriale e l’orrore della riproduzione biologica. Eraserhead diventa immediatamente un film di culto, stabilendo Lynch come un maestro dell’inquietudine visiva. Con The Elephant Man (1980), Lynch conquista Hollywood, ottenendo otto nomination agli Oscar. Il film, prodotto da Mel Brooks, racconta la storia vera di Joseph Merrick, uomo sfigurato dalla malattia che diventa attrazione da baraccone nell’Inghilterra vittoriana. Lynch trasforma questa storia in una meditazione sulla differenza, sul mostruoso, sulla violenza dello sguardo normalizzatore. Seguirà l’ambizioso e disastroso Dune (1984), adattamento del romanzo di Frank Herbert che Lynch stesso rinnegherà, sentendosi tradito dall’ingerenza produttiva di Dino De Laurentiis. Blue Velvet (1986) segna una svolta decisiva. È il film dove Lynch trova la sua voce matura, quella sintesi perfetta tra sperimentalismo e narrazione, tra superficie e profondità, tra americanità e decostruzione dell’americanità. Il film riceve una nomination all’Oscar per la regia e consacra Lynch come uno dei grandi autori contemporanei. Seguiranno Wild at Heart (1990, Palma d’Oro a Cannes), la serie televisiva Twin Peaks (1990-1991, e poi 2017), che rivoluzionerà il linguaggio televisivo, il prequel cinematografico Twin Peaks: Fire Walk with Me (1992), Lost Highway (1997), The Straight Story (1999, l’unico film ‘normale’ di Lynch), Mulholland Drive (2001, considerato da molti il suo capolavoro), e Inland Empire (2006), un’opera di tre ore girata interamente in digitale che porta alle estreme conseguenze la destrutturazione della narrazione.
L’aggettivo ‘lynchiano’ è entrato nell’uso comune per designare un certo tipo di atmosfera: la banalità quotidiana che si rovescia improvvisamente nell’incubo, l’ordinario che rivela il suo fondo perturbante, la normalità americana che si scopre costruita su un abisso. Ma questa categoria estetica ha una profonda rilevanza filosofica. Il ‘lynchiano’ è innanzitutto una critica dell’ideologia americana. Lynch cresce negli anni ’50, l’epoca del conformismo suburbano, della famiglia nucleare, del sogno americano come promessa universale di felicità. Ma nei suoi film questa superficie idilliaca è sempre attraversata da crepe, da zone d’ombra, da violenze rimosse. La piccola città americana (Lumberton in Blue Velvet , Twin Peaks nella serie omonima) è il luogo dove questo cortocircuito tra superficie e profondità diventa visibile. In secondo luogo, il ‘lynchiano’ è una modalità di rappresentazione dell’inconscio. Ma non l’inconscio freudiano classico, fatto di simboli da decifrare e di contenuti latenti da portare alla coscienza. L’inconscio lynchiano è piuttosto quello lacaniano: un’alterità radicale che non può essere integrata, un Reale traumatico che ritorna ossessivamente, un godimento eccedente che non si lascia simbolizzare. I personaggi di Lynch (Frank Booth, Bobby Peru, il Mystery Man di Lost Highway) non sono personaggi psicologici: sono figure dell’Alterità, incarnazioni di quella dimensione pulsionale che eccede ogni simbolizzazione. Infine, il ‘lynchiano’ è una riflessione sul cinema stesso. Lynch non racconta storie nel senso classico: costruisce atmosfere, crea blocchi di sensazioni (per usare il termine di Deleuze), ci immerge in mondi dove la distinzione tra sogno e veglia, tra realtà e allucinazione, si dissolve. Il suo è un cinema che non vuole spiegare ma mostrare, che non vuole significare ma far sentire. Un cinema che, come scrive Deleuze, non rappresenta il mondo ma fa vedere le forze invisibili che lo attraversano.
Blue Velvet è il film più filosoficamente denso di Lynch, e non a caso è quello che Slavoj Žižek cita ossessivamente nelle sue lezioni e nei suoi scritti. È il film che mostra visivamente i concetti chiave della psicoanalisi lacaniana (Reale, Simbolico, Immaginario, godimento) ma anche, paradossalmente, quelli di Gilles Deleuze e Félix Guattari (macchine desideranti, corpo senza organi, deterritorializzazione).
Il film si svolge nella cittadina fittizia di Lumberton, North Carolina. Lumberton non è “una città americana tra tante” ma l’archetipo, il simulacro della small-town America. È più “americana” di qualsiasi città reale proprio perché è costruita come pura immagine ideologica. La storia inizia quando Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), giovane studente universitario, torna a casa per assistere il padre colpito da infarto. Durante una passeggiata in un campo scopre un orecchio umano mozzato, ancora fresco, brulicante di formiche. Incuriosito e turbato, Jeffrey porta l’orecchio alla polizia, dove conosce Sandy Williams (Laura Dern), figlia del detective Williams che sta indagando sul caso. Sandy rivela a Jeffrey informazioni riservate: l’orecchio potrebbe essere collegato a Dorothy Vallens (Isabella Rossellini), una cantante di night club il cui marito e figlio sono scomparsi. Jeffrey, spinto da una curiosità morbosa che lui stesso definisce come desiderio di ‘vedere cose strane’, convince Sandy ad aiutarlo a introdursi nell’appartamento di Dorothy. Nascosto nell’armadio, Jeffrey assiste a una scena di violenza sessuale: Frank Booth (Dennis Hopper), un criminale psicopatico, irrompe nell’appartamento, inala gas da una bombola, e stupra Dorothy mentre la chiama ‘mamma’ e lei lo chiama ‘baby’. Jeffrey scopre che Frank tiene prigionieri il marito e il figlio di Dorothy, costringendola a sottomettersi ai suoi desideri perversi. Scoperto da Dorothy dopo la partenza di Frank, Jeffrey viene sedotto dalla stessa Dorothy, instaurando con lei una relazione sadomasochistica dove i ruoli si invertono: Dorothy vuole essere picchiata, vuole essere trattata come Frank la tratta. Jeffrey si trova così diviso tra due mondi: quello luminoso e innocente di Sandy, rappresentante della normalità borghese, e quello oscuro e perverso di Dorothy, porta verso l’abisso del desiderio. Il film culmina in una serie di violenze: Frank costringe Jeffrey a partecipare a un giro notturno che culmina in un pestaggio brutale; Jeffrey viene coinvolto in una sparatoria finale dove muoiono Frank e il poliziotto corrotto; Dorothy viene liberata e riunita al figlio. Il finale mostra un ritorno apparente alla normalità: Jeffrey e Sandy sono insieme, le famiglie sono riunite, tutto sembra tornato al suo posto. Ma l’immagine del pettirosso meccanico che divora uno scarafaggio – realizzazione materiale del sogno che Sandy aveva raccontato a Jeffrey – rivela la natura artificiale di questa pacificazione.
Il film si apre con una delle sequenze più celebri della storia del cinema, una vera e propria dichiarazione di poetica che condensa in pochi minuti l’intera filosofia del film. Vediamo immagini da cartolina della piccola città americana di Lumberton: un prato verde perfetto, falciato con cura maniacale; rose rosse in primo piano, saturate, iperrealiste; una recinzione bianca pittoresca; pompieri che sfilano sul camion, sorridenti e amichevoli, salutando la macchina da presa; bambini che attraversano la strada accompagnati dal vigile urbano. È l’America ideale, l’immagine pubblicitaria della normalità borghese anni ’50, quella che Douglas Sirk aveva già ironizzato nei suoi melodrammi degli anni ’50. Sulla colonna sonora, Bobby Vinton canta Blue Velvet, canzone romantica, nostalgica, rassicurante. Poi, il trauma. Il signor Beaumont sta innaffiando il prato quando improvvisamente stramazza al suolo: infarto. Cade a terra, il tubo dell’acqua gli sfugge di mano e continua a spruzzare acqua mentre un cane cerca di morderlo. Il bambino che lo guarda dalla finestra non capisce cosa sta succedendo. La macchina da presa si avvicina al prato, sempre più vicina, fino a penetrare sotto la superficie: formiche che divorano, insetti che brulicano, larve che si contorcono. Sotto il verde perfetto, c’è putrefazione, violenza, materia organica in decomposizione. Il suono diventa sordo, minaccioso, pulsante.
Questa scena fa pensare immediatamente a un celebre passo dello Zibaldone di Giacomo Leopardi (19 aprile 1826), quello sul ‘giardino sofferente’. Leopardi scrive:
Entro in un giardino… tutto mi par ridente, io mi figuro che quivi tutto sia pace… Ma in verità questa vita è tutt’altro che pace; ella è guerra.
Leopardi descrive dettagliatamente quella guerra sotterranea: piante che si soffocano, insetti che si divorano, uccelli che cacciano vermi. È esattamente la stessa operazione visiva di Lynch: la macchina da presa che penetra sotto il prato di periferia per mostrare gli insetti che brulicano. C’è una evidente affinità nella struttura dello sguardo: entrambi penetrano sotto la superficie idillica per scoprirvi qualcosa di oscuro e violento. Entrambi operano una decostruzione dell’idillio. Tuttavia, c’è una differenza filosoficamente decisiva: Leopardi usa questa visione per una tesi metafisica: la sofferenza è la condizione universale dell’essere vivente. Il male non è deviazione ma struttura ontologica della natura. È pessimismo cosmico: la natura è matrigna, il dolore è necessario. Si tratta di una verità eterna, atemporale, che vale in ogni epoca e in ogni luogo. Lynch invece non fa filosofia della natura ma critica culturale: quella violenza sotterranea non è la verità metafisica del mondo, ma il rimosso specifico della cultura americana degli anni ’50-’80. Non dice ‘la vita è sofferenza’, dice ‘l’american dream rimuove la violenza che lo costituisce’. È diagnosi storico-culturale, non metafisica. In Leopardi l’idillio poetico (quello delle sue stesse poesie giovanili) viene smascherato come illusione consolatoria. Il ‘ridente’ del giardino è una proiezione antropomorfica che la natura smentisce brutalmente. In Lynch c’è esattamente la stessa operazione: le recinzioni bianche, i tulipani, il pompiere sorridente sono l’idillio americano costruito cinematograficamente, e la macchina da presa lo svuota mostrando che poggia letteralmente su un sostrato di violenza. Dove Lynch si distingue radicalmente da Leopardi è nell’eroticizzazione di quella violenza. Dorothy Vallens, Frank Booth: la perversione non è solo scoperta ma anche goduta, esplorata, desiderata. Jeffrey vuole vedere ‘cose strane’. Non c’è questo in Leopardi: la sofferenza della natura è tragica, non erotica. Lynch inoltre non propone una tesi universale. Non dice ‘questa è la verità del mondo’ (Leopardi), dice ‘questa è la specifica patologia della cultura americana del dopoguerra’. È diagnosi storico-culturale, non metafisica. Il richiamo leopardiano è pertinente per la struttura formale (penetrazione sotto la superficie idillica) e per la funzione critica (decostruzione dell’illusione consolatoria), ma diventa improprio se lo si intende come identità di tesi filosofica.
La scoperta dell’orecchio mozzato da parte di Jeffrey è la seconda grande immagine-chiave del film. Dopo la discesa sotto il prato, abbiamo ora un oggetto parziale, un pezzo di corpo che emerge dal terreno come un reperto archeologico dell’orrore. In termini lacaniani, l’orecchio è un objet petit a: non un oggetto nel senso comune, ma un resto, un frammento che causa il desiderio senza mai poterlo soddisfare. L’orecchio è ciò che Jeffrey non può non guardare, ciò che lo attrae irresistibilmente. La sua curiosità (‘I’m seeing something that was always hidden’) non è intellettuale ma pulsionale: è il desiderio stesso che si manifesta come spinta a vedere, a sapere, a penetrare il mistero. Ma l’orecchio è anche, letteralmente, l’organo dell’ascolto. E il momento cruciale del film sarà proprio quando Jeffrey si nasconderà nell’armadio di Dorothy per ascoltare. La macchina da presa, in una delle soggettive più celebri del cinema, entra letteralmente dentro l’orecchio, come se stessimo penetrando nel canale uditivo stesso, nell’oscurità dell’interno del corpo. Questa immagine è una perfetta metafora visiva dell’inconscio freudiano: entrare nell’orecchio significa entrare in ciò che è nascosto, rimosso, inaudibile. Ma significa anche – e qui torniamo a Lacan – entrare in una dimensione dove non c’è più distinzione tra soggetto e oggetto, tra dentro e fuori. L’orecchio è insieme parte del corpo e oggetto separato; è insieme organo della percezione e cosa percepita; è insieme mezzo e messaggio.
Jeffrey Beaumont è il protagonista, ma è importante capire che non è un eroe nel senso classico. Non è nemmeno un detective, benché il film sembri inizialmente strutturarsi come un noir. Jeffrey è piuttosto quello che Lacan chiamerebbe un soggetto diviso, un soggetto che scopre di essere attraversato da una scissione costitutiva. Jeffrey è letteralmente diviso tra due donne, due mondi, due versioni di sé stesso: Sandy Williams rappresenta il mondo della Luce, della normalità, della legge. È bionda, solare, ingenua. Veste abiti chiari, vive in una casa ordinata con genitori amorevoli. È l’ideale americano della ragazza della porta accanto, quella con cui si costruisce una famiglia, quella che promette felicità e sicurezza. Sandy è il Simbolico, l’ordine della legge e del linguaggio, il Grande Altro che garantisce senso e stabilità. Dorothy Vallens rappresenta il mondo dell’Oscurità, della perversione, del godimento. È bruna, sensuale, traumatizzata. Veste di blu (blue velvet), vive in un appartamento claustrofobico, è vittima e al tempo stesso complice della violenza. È la donna fatale del noir, quella che porta alla rovina, quella che rivela la verità oscura del desiderio. Dorothy è il Reale, quella dimensione traumatica che non si lascia simbolizzare, che eccede ogni legge. Jeffrey non può scegliere tra le due perché non sono alternative tra cui scegliere: sono i due poli costitutivi della sua stessa soggettività. Con Sandy, Jeffrey è il bravo ragazzo americano; con Dorothy, emerge il suo lato oscuro, la sua propensione alla violenza e al dominio.
Dopo aver assistito alle violenze di Frank, Jeffrey chiede a Sandy: ‘Perché ci sono persone come Frank? Perché il mondo è così brutto?’ È la domanda fondamentale del film, e Lynch non fornisce alcuna risposta rassicurante. Žižek interpreta questa scena in modo illuminante: Jeffrey non sta davvero chiedendo ‘perché esistono persone malvage nel mondo’. Sta chiedendo qualcosa di molto più personale e angosciante: ‘Perché io desidero queste cose orribili?’ Jeffrey ha scoperto che il desiderio è una cosa sporca. Lui stesso desidera Dorothy e prova un fascino morboso per Frank. Quando osserva Dorothy attraverso la fessura delle persiane, quando si nasconde nell’armadio per guardare, Jeffrey non sta semplicemente raccogliendo prove come un detective: sta godendo di quella visione. Il suo voyeurismo non è solo curiosità, è eccitazione. E questo lo terrorizza. La domanda ‘perché il mondo è brutto?’ è quindi un modo per esternalizzare il problema, per proiettarlo fuori di sé. Ma il film mostra chiaramente che il problema è interno: Frank non è solo là fuori, nel mondo; Frank è dentro Jeffrey. Sono doppi, specchi l’uno dell’altro. Frank dice esplicitamente a Jeffrey: ‘You’re like me‘ (Sei come me).
Frank Booth, interpretato da un Dennis Hopper in stato di grazia, è uno dei personaggi più inquietanti della storia del cinema. Ma chi è davvero Frank? Non è semplicemente un criminale psicopatico, benché sia anche questo. Frank è qualcosa di più radicale e filosoficamente significativo: è l’incarnazione pura del godimento lacaniano, della jouissance. Per Lacan, il godimento non è il piacere. Il piacere (plaisir) è regolato dal principio di piacere freudiano: cerca la soddisfazione ma entro limiti, evita l’eccesso, mantiene l’omeostasi. Il godimento (jouissance) invece è oltre il principio di piacere: è un eccesso che può essere doloroso, traumatico, distruttivo, ma che il soggetto non può smettere di ripetere. Frank è interamente governato dal godimento. Ogni sua azione è spinta da questa logica dell’eccesso: inala ossido d’azoto (o nitrito di amile, non è chiaro) da una maschera per intensificare le sensazioni; urla, bestemmia, passa dall’affetto estatico alla violenza omicida in pochi secondi; la sua sessualità è interamente perversa, non cerca l’unione ma il dominio, lo stupro, l’umiliazione. La scena dello stupro di Dorothy è cruciale per capire Frank. Mentre la violenta, Frank grida alternativamente ‘Mommy!’ e insulti brutali. In un certo momento dice: ‘Baby wants to fuck!‘, identificandosi simultaneamente come bambino e come aggressore sessuale. Questa confusione dei ruoli non è pazzia nel senso psichiatrico: è la struttura stessa della perversione.
Frank chiama Dorothy ‘Mommy’ mentre la violenta. Questa non è una metafora: è la letteralizzazione dell’Edipo. Per Freud, il complesso edipico è la struttura fondamentale della psiche: il bambino desidera la madre e vede il padre come rivale. La risoluzione ‘normale’ dell’Edipo implica l’identificazione col padre e la rinuncia alla madre, che viene spostata su altri oggetti (altre donne). In Frank, l’Edipo non è mai stato risolto. Anzi, è cristallizzato in una forma mostruosa. Frank non ha rinunciato alla madre: continua a desiderarla, ma la desidera in modo violento, punitivo. La chiama ‘Mommy’ ma poi la stupra, come se dovesse simultaneamente possederla e punirla per averlo abbandonato. Ma qui dobbiamo fare un passo ulteriore, seguendo Žižek. Frank non è semplicemente un Edipo non risolto nel senso clinico. Frank mostra che l’Edipo stesso è una struttura di godimento, non solo di desiderio. Il godimento edipico non è quello che il bambino prova verso la madre, ma quello che fantastica che il Padre goda della madre. Frank occupa questa posizione impossibile: è simultaneamente il bambino che desidera e il Padre che gode, senza mediazione simbolica tra le due posizioni.
L’immagine di Frank che inala gas dalla maschera può essere letta in chiave deleuziana come tentativo di raggiungere il cosiddetto corpo senza organi (CsO). Il corpo senza organi non è un corpo privo di organi, ma un corpo liberato dall’organizzazione funzionale degli organi, dalla loro finalizzazione sociale e riproduttiva. È il corpo come campo di intensità pure, non ancora catturato dal significante, non ancora disciplinato dalla legge. Nell’Anti-Edipo, D&G descrivono tossicomani e schizofrenici come coloro che cercano di raggiungere questo stato: dissolvere i confini dell’io, diventare puro flusso. Frank inala il gas per intensificare, per andare oltre i limiti normali della sensazione. Il gas dissolve temporaneamente i confini del suo io, lo proietta in uno stato di eccitazione pura dove tutto – violenza, sesso, affetto, odio – si confonde in un’unica intensità insostenibile. È un tentativo disperato di oltrepassare i limiti del corpo organizzato, di raggiungere un godimento assoluto. Ma c’è un paradosso: questo tentativo fallisce sempre. Il CsO deleuziano è una sperimentazione, una pratica ascetica (come nei mistici o negli artisti). In Frank invece è compulsione, ripetizione sintomatica. Deve inalare il gas ogni volta, deve ripetere la stessa scena con Dorothy ogni volta, perché il godimento promesso non arriva mai. È intrappolato in un loop infernale.
Dorothy Vallens è il personaggio più complesso e problematico del film. È simultaneamente vittima (Frank tiene prigionieri suo marito e figlio, costringendola a sottomettersi) e apparentemente complice (chiede a Jeffrey di colpirla, sembra desiderare la violenza). Questa ambiguità ha generato dibattiti feroci: il film sta riproducendo fantasie maschili sulla donna masochista? Sta vittimizzando Dorothy? La tentazione è leggere Dorothy come rappresentazione del ‘masochismo femminile’, quel fantasma teorico che Freud aveva ipotizzato e che la psicoanalisi femminista ha giustamente smantellato. Ma questa lettura è troppo semplice. Dobbiamo chiederci: cosa significa che Dorothy chiede a Jeffrey di colpirla? Žižek suggerisce una risposta controintuitiva: Dorothy non sta esprimendo un desiderio proprio, ma sta cercando di soddisfare il desiderio dell’Altro. Ha imparato, attraverso il trauma con Frank, che questo è ciò che l’Altro vuole da lei. Quando dice a Jeffrey ‘Hit me!’, sta tentando di riprodurre l’unica posizione soggettiva che conosce, l’unica che le sembra garantire una forma (per quanto distorta) di riconoscimento. Questa non è complicità: è una forma di identificazione con l’aggressore, meccanismo di sopravvivenza psichica ben noto nei casi di trauma ripetuto. Dorothy ha interiorizzato la posizione che Frank le ha imposto, ma questo non significa che la desideri veramente. Significa che il trauma ha colonizzato il suo stesso desiderio.
Dorothy appare nuda più volte nel film, in modi che la espongono non solo fisicamente ma esistenzialmente. La scena più perturbante è quando, completamente nuda, ferita e confusa, appare sulla strada davanti alla casa dei genitori di Sandy mentre Jeffrey e Sandy sono lì. È una delle immagini più potenti del film: la donna traumatizzata che irrompe nel mondo della normalità, che mostra a tutti ciò che dovrebbe rimanere nascosto. In termini lacaniani, Dorothy in questo momento è puro Reale: non mediata dal Simbolico, non coperta dalla finzione sociale. È la verità traumatica che irrompe nel sogno americano. I genitori di Sandy, scioccati, non sanno come gestire questa apparizione. Jeffrey e Sandy sono costretti a confrontarsi con ciò che avevano cercato di separare: il mondo pulito di Lumberton e il mondo sporco di Dorothy non sono due mondi diversi, sono lo stesso mondo visto da angolazioni diverse.
Il titolo del film, Blue Velvet, si riferisce al pezzo di velluto blu che Frank porta sempre con sé e che usa nelle sue perversioni con Dorothy. Questo pezzo di stoffa è un feticcio nel senso tecnico freudiano: un oggetto che sostituisce ciò che manca (il fallo materno, nella teoria freudiana del feticismo), permettendo al perverso di negare la castrazione. Ma il velluto blu è anche un feticcio nel senso marxiano: una merce che nasconde le relazioni sociali che l’hanno prodotta. Il velluto è morbido, lussuoso, erotico. Ma copre, letteralmente, la violenza. Frank mette il velluto sulla bocca di Dorothy mentre la violenta. Il velluto è quindi ciò che media tra il godimento e l’orrore, ciò che rende tollerabile l’intollerabile. La canzone Blue Velvet, cantata da Bobby Vinton all’inizio e ripresa da Dorothy nel night club, funziona allo stesso modo: è una melodia dolce, nostalgica, romantica che copre l’oscurità. Quando Dorothy la canta, sappiamo già cosa c’è dietro quella voce: il terrore, il ricatto, il figlio prigioniero. Il velluto blu – stoffa e canzone – è quindi l’immagine stessa dell’ideologia: il fantasma che rende vivibile la realtà insopportabile.
La scena in cui Jeffrey si nasconde nell’armadio di Dorothy e assiste allo stupro di Frank è il cuore pulsante del film, il momento in cui tutte le dinamiche filosofiche e psicoanalitiche convergono. Jeffrey nell’armadio è innanzitutto uno spettatore. Guarda attraverso le fessure delle persiane dell’armadio, esattamente come noi spettatori guardiamo attraverso lo schermo cinematografico. Lynch sta riflettendo sulla posizione stessa dello spettatore cinematografico: siamo sempre voyeur, sempre nascosti al sicuro nel buio mentre guardiamo scene che non dovremmo vedere. Ma il voyeurismo non è una posizione innocente. Laura Mulvey, nella sua teoria femminista del cinema, ha mostrato come lo sguardo cinematografico classico sia strutturato secondo dinamiche di potere maschili: l’uomo guarda (posizione attiva), la donna è guardata (posizione passiva). Jeffrey che guarda Dorothy riproduce esattamente questo schema. Ma Lynch complica questa dinamica: Jeffrey non è semplicemente nella posizione del potere. È terrorizzato, eccitato, disgustato, colpevole. Il suo sguardo non lo rende padrone della situazione; lo espone alla propria complicità. Vedere non è neutro: è partecipare, anche se passivamente.
Per Lacan, ogni soggetto è strutturato da un fantasma fondamentale, una scena primaria che organizza il suo desiderio. Il fantasma non è necessariamente un evento realmente accaduto: è piuttosto uno scenario fantasmatico che dà forma al desiderio, che risponde alla domanda ‘Che cosa vuole da me l’Altro?’ La scena che Jeffrey vede dall’armadio diventa il suo fantasma fondamentale: la donna che chiede di essere picchiata, l’uomo violento che gode senza limiti. Questa scena traumatizza Jeffrey, ma anche lo struttura. Dopo averla vista, non può più tornare indietro: il suo desiderio è stato formato, contaminato, orientato. E infatti, nelle scene successive con Dorothy, Jeffrey riprodurrà elementi di ciò che ha visto. Quando Dorothy gli chiede di colpirla e lui lo fa, sta ripetendo la posizione di Frank. Ma questa ripetizione lo disgusta: urla a Dorothy di non guardarlo, come se il suo sguardo lo costringesse a riconoscere ciò che sta facendo. Cerca di scindere l’azione dalla consapevolezza, ma non può.
Una delle scene più memorabili del film è il joy ride notturno: Frank costringe Jeffrey a salire in macchina per un viaggio che culminerà in un pestaggio brutale. Durante il viaggio, in un locale squallido, un personaggio chiamato Ben (interpretato da Dean Stockwell) mima la canzone In Dreams di Roy Orbison, muovendo le labbra mentre la canzone esce da un registratore. Frank è completamente rapito dalla performance. Piange. La sua violenza si trasforma temporaneamente in vulnerabilità. Quando Ben finisce, Frank riprende la canzone lui stesso, nel retro della macchina, mentre si avvicina minacciosamente a Jeffrey. Gli dice: ‘You’re like me’ (Sei come me). Per Žižek, questa scena è la dimostrazione perfetta di come il fantasma funzioni come schermo protettivo. In Dreams non è solo una canzone nostalgica: è il fantasma che permette a Frank di continuare a esistere. Senza quella canzone, senza quella finzione, Frank crollerebbe. La canzone parla di sogni, di un mondo ideale (‘In dreams I walk with you’), ma sappiamo che i sogni di Frank sono incubi. Eppure quella melodia dolce, quella voce rassicurante, crea uno spazio dove Frank può permettersi di essere vulnerabile. Il fantasma (la canzone) media tra il soggetto (Frank) e il Reale (il suo trauma, la sua violenza). Ma attenzione: la canzone non è cantata da Ben. Ben la mima. Questo è cruciale. Il fantasma è sempre una messa in scena, una performance, non una verità. Ben con il suo rossetto, il suo atteggiamento camp, la sua teatralità esagerata, mostra che tutto questo è finzione. Ma è una finzione necessaria. Quando Frank dice a Jeffrey ‘You’re like me’, sta rivelando la verità più inquietante del film: non c’è differenza ontologica tra loro. Jeffrey non è il bravo ragazzo che scopre il male esterno; è qualcuno che scopre il male in sé stesso. Frank è ciò che Jeffrey potrebbe diventare se lasciasse che il suo desiderio oscuro prendesse completamente il controllo. Questa identificazione sintomatica è il nucleo del film. Non si tratta di dire che “tutti abbiamo un lato oscuro” in senso banale. Si tratta di riconoscere che il soggetto normale (Jeffrey/l’America borghese) e il soggetto perverso (Frank/il rimosso americano) sono strutturalmente legati. L’uno non può esistere senza l’altro. La normalità di Lumberton produce Frank, ha bisogno di Frank per definirsi come normale.
Il finale di Blue Velvet è uno dei più inquietanti della storia del cinema proprio perché, in apparenza, è un lieto fine. Frank è morto, Dorothy è stata liberata e riunita a suo figlio, Jeffrey e Sandy sono insieme, le famiglie sono riunite nel giardino a guardare il pettirosso. Tutto sembra tornato a posto. Ma c’è una malinconia sottile e una falsità stridente che ci dicono che Jeffrey non è affatto guarito. La pace che vediamo è artificiale, vigilata, precaria. Žižek usa la formula del feticismo per descrivere l’ideologia moderna: ‘So bene, ma tuttavia…’. Il feticista sa che il feticcio è solo un oggetto, ma si comporta come se avesse poteri magici. Nel finale, Jeffrey incarna perfettamente questa posizione: ‘So bene’ che sotto il prato ci sono gli scarafaggi, che Frank Booth è parte di me e che il desiderio è violento… ‘…ma tuttavia’ mi comporto come se la torta di mele di Sandy e il pettirosso meccanico fossero l’unica realtà. Jeffrey non ha eliminato l’oscurità; l’ha compartimentata. La sua normalità finale è un feticcio: una maschera che lui sa essere finta, ma che indossa per poter continuare a vivere nella società senza impazzire. Lynch ci dà un indizio visivo brutale: il pettirosso che Sandy aveva sognato come simbolo di speranza appare nel finale, ma è palesemente finto. È un pupazzo meccanico che mastica un insetto. L’inquadratura è volutamente innaturale, il movimento è rigido, la finzione è evidente. Il significato è chiaro: la ‘luce’ e la ‘bontà’ di Sandy sono costruzioni artificiali. Il Simbolico (la società) non vince sul Reale (l’orrore) trasformandolo in bene; lo vince solo ‘mangiandolo’, digerendolo e trasformandolo in una scena da cartolina. Il fatto che il pettirosso sia un automa suggerisce che anche Jeffrey e Sandy, nel finale, sono diventati degli automi sociali. Hanno rinunciato alla loro verità soggettiva per recitare la parte della ‘coppia perfetta’.
Nel finale, Dorothy è nel parco, indossa un vestito giallo (un colore solare, simile a quelli di Sandy) e riabbraccia suo figlio. Dal punto di vista di Jeffrey, Dorothy è stata ‘bonificata’. Il Reale traumatico che lei rappresentava è stato ricondotto nell’alveo della famiglia e della legalità. Ma questa immagine è spettrale. Dorothy sembra svuotata. Per essere accettata di nuovo nel ‘mondo della luce’, ha dovuto perdere la sua carica erotica e tragica. È stata ridotta a un’icona materna rassicurante. La sua singolarità è stata cancellata. Jeffrey ha subito la trasformazione più triste. All’inizio del film era un giovane curioso, pronto a ‘sporgersi’ oltre il recinto. Alla fine, lo vediamo seduto in giardino, immobile, che accetta passivamente la visione dei pettirossi. Per Lacan, il desiderio è sempre legato a una mancanza e a un rischio. Jeffrey, scegliendo la sicurezza totale di Sandy e la protezione del Grande Altro di Lumberton, ha effettivamente rinunciato al suo desiderio. È ‘guarito’ solo nel senso che è stato reintegrato nel sistema, ma a prezzo della sua singolarità. È diventato parte di quella stessa scenografia che all’inizio del film Lynch ci mostrava come sospetta.
Il finale non è felice perché è perturbante (Unheimlich). Freud definiva il perturbante come qualcosa di familiare che è stato rimosso e che improvvisamente ritorna. Sebbene Jeffrey sia tornato a casa, la ‘casa’ non è più la stessa. Ogni volta che guarderà Sandy, ogni volta che vedrà un prato verde, saprà cosa c’è sotto. La sua è una pace vigilata, una recita che richiede uno sforzo costante per non guardare di nuovo nell’armadio. In sintesi: Jeffrey non è guarito, è solo diventato un ottimo attore della propria vita. Ha imparato che per sopravvivere a Lumberton bisogna essere complici della sua finzione.
Passare da Lacan a Gilles Deleuze significa spostare l’attenzione dal ‘soggetto diviso’ e dalla ‘mancanza’ ai flussi di desiderio, alle intensità e alla rottura dello schema sensomotorio. Se per Žižek e Lacan il film riguarda ciò che nascondiamo, per Deleuze riguarda ciò che vediamo e come il cinema ci permette di percepire forze invisibili.
Nel primo volume di Cinema (Cinema 1. L’immagine-movimento), Deleuze elabora il concetto di immagine-pulsione, che associa al naturalismo cinematografico (come in Buñuel o Stroheim). L’immagine-pulsione mostra un ‘mondo originario’, uno strato pre-simbolico fatto di pulsioni pure, di pezzi di corpi, di violenza elementare. Deleuze distingue tra i ‘mondi derivati’ (la società civilizzata, l’ordine simbolico) e un ‘mondo originario’ che sta sotto, fatto di forze elementari. Blue Velvet mette in scena esattamente questa distinzione: Lumberton è il mondo derivato, ordinato, civilizzato; l’appartamento di Dorothy, il bar di Frank, il campo dove viene trovato l’orecchio sono frammenti del mondo originario che irrompono nella superficie. L’orecchio mozzato è un ‘pezzo’ di questo mondo originario. Non è un simbolo (come lo sarebbe in Lacan), ma un frammento pulsionale che connette Jeffrey a un ambiente di pura crudeltà e sessualità. Frank Booth è l’incarnazione di questo mondo: non agisce per motivi logici o psicologici, ma è mosso da pulsioni che Deleuze definirebbe ‘elementari’ – il respiro (il gas), il grido, il tatto del velluto.
Deleuze definisce l’immagine-affetto attraverso il primo piano. Il volto in primo piano non è più una persona, ma una ‘entità riflettente’ che esprime una qualità pura, un affetto che ha assorbito tutto lo spazio circostante. Il volto di Frank: Quando Frank usa il respiratore o guarda Dorothy, il suo volto diventa un paesaggio di terrore e godimento. Non è più un personaggio con una psicologia: è l’affetto della Violenza fatto carne. Il primo piano di Frank con la maschera del gas è pura intensità, puro terrore cristallizzato in un’immagine. Il volto di Dorothy: È il luogo dove si iscrive il dolore come forza pura, indipendentemente dalla trama. Quando Dorothy piange, quando il suo volto si contorce, non stiamo vedendo un personaggio che soffre per delle ragioni narrative: stiamo vedendo il Dolore stesso, l’affetto puro che ha preso possesso di quel volto. Questo è il punto di svolta dal cinema classico al cinema moderno secondo Deleuze. Nel cinema classico (il cinema dell’immagine-movimento), c’è uno schema sensomotorio: a una percezione segue un’azione. Il protagonista vede qualcosa, elabora la situazione, agisce. In Blue Velvet, questo schema si rompe. Jeffrey nell’armadio è quello che Deleuze chiama un ‘veggente’ (voyant). Non può agire, può solo guardare e ascoltare. La situazione è diventata una Situazione Ottica e Sonora pura (SOS). Jeffrey è paralizzato non per codardia, ma perché ciò che vede eccede la sua capacità di risposta. Nel cinema classico (un film noir degli anni ’40, per esempio), il detective vede qualcosa e immediatamente sa cosa fare: chiama la polizia, insegue il criminale, risolve il caso. Jeffrey invece vede Frank stuprare Dorothy e non sa cosa fare. Non può intervenire (verrebbe ucciso), ma non può nemmeno semplicemente ‘registrare’ ciò che vede e poi agire razionalmente. Ciò che vede lo trasforma: la visione stessa è l’evento traumatico. Questa è la modernità di Lynch secondo Deleuze: il protagonista non è un eroe che risolve un caso, ma un recettore di immagini che non riesce più a padroneggiare. Jeffrey non controlla ciò che vede; è controllato da ciò che vede.
Nel secondo volume (Cinema 2. L’immagine-tempo), Deleuze introduce il concetto di immagine-cristallo. Il cristallo è il punto in cui l’attuale (ciò che è presente, reale) e il virtuale (ciò che è possibile, potenziale) diventano indiscernibili. È come guardare in uno specchio e non riuscire più a distinguere cosa è riflessione e cosa è realtà. Blue Velvet è costruito interamente su questa indiscernibilità. Il ‘buio’ non è il contrario della ‘luce’. Sono le due facce di un cristallo. Non c’è un prima e un dopo, non c’è una Lumberton autentica che poi viene corrotta da Frank. Lumberton-diurna e Lumberton-notturna sono simultanee, sono l’una il doppio virtuale dell’altra. Il pettirosso meccanico nel finale è un’immagine-cristallo perfetta. È reale (c’è davvero un uccello, anche se meccanico) o è il sogno di Sandy (che aveva raccontato del pettirosso)? È un simbolo di speranza o la prova che la speranza stessa è artificiale? È impossibile decidere. È un cristallo dove realtà e finzione si riflettono infinitamente.
Deleuze dice che il cinema moderno deve lottare contro i cliché. Un cliché è un’immagine precostituita, un’immagine che non ci fa più vedere ma che sostituisce la visione con il riconoscimento. Il pettirosso della felicità è un cliché: l’abbiamo visto mille volte nelle cartoline, nelle pubblicità, nei film Disney. Lynch usa questo cliché mostrandone l’artificialità meccanica. Il pettirosso non è naturale: è un automa. Facendo questo, Lynch rivela che la ‘realtà’ stessa di Lumberton è costruita da cliché, da immagini precostituite. La piccola città americana, il prato verde, la famiglia felice: sono tutti cliché che la cultura ha prodotto e che il cinema ha riprodotto infinite volte. Il compito del cinema, per Deleuze, non è riprodurre questi cliché ma farli esplodere dall’interno, mostrandone la natura costruita. Lynch fa esattamente questo.
Mentre Lacan cerca la ‘struttura’ (il Simbolico, le leggi del linguaggio), Deleuze cerca la ‘forza’. La forza è ciò che non è ancora catturato dalla forma, ciò che non è ancora simbolizzato. È pura intensità, pura variazione. La musica in Blue Velvet non serve a commentare la scena; crea un ‘blocco di sensazioni’. La canzone Blue Velvet all’inizio del film non ci sta dicendo qualcosa sulla trama: sta creando un’atmosfera, una tonalità affettiva. La voce di Bobby Vinton diventa una forza che modella lo spazio dell’immagine. Ancora più importante è la scena con In Dreams di Roy Orbison. Quando Ben mima la canzone e poi Frank la riprende in macchina, non stiamo assistendo a un ‘uso della musica nel cinema’ nel senso tradizionale. La canzone diventa una forza che attraversa i corpi, che li deforma, che li fa vibrare. Non è uno strumento narrativo: è un evento sonoro puro. Deleuze parla di ‘sonsign‘ (segno sonoro) per indicare quando il suono non significa ma fa sentire. In Dreams è un sonsign: la voce di Orbison, con il suo tremolo caratteristico, produce un effetto fisico, quasi tattile. Frank che piange ascoltando quella voce non sta ‘interpretando’ la canzone: sta essendo attraversato da una forza sonora che rende indistinguibili dolore e gioia.
Per Deleuze, il divenire è un processo ontologico fondamentale. Non si tratta di ‘diventare qualcosa’ nel senso di raggiungere un’identità stabile. Si tratta di attraversare zone di indistinzione, di passare tra due termini senza mai stabilizzarsi in nessuno dei due. Jeffrey non ‘scopre’ il male come qualcosa di esterno: attraversa un ‘divenire-Frank’. Quando colpisce Dorothy, quando la insulta, quando sente eccitazione per la violenza, Jeffrey sta momentaneamente diventando Frank. Ma non è una trasformazione definitiva: è un passaggio, una zona di indistinzione. Allo stesso modo, il finale mostra un ‘divenire-pettirosso’: Jeffrey si stabilizza nell’immagine idilliaca, si lascia catturare dal cliché della felicità americana. Ma non è una vera trasformazione: è una cristallizzazione artificiale, un divenire-automa più che un divenire-vivo.
Le letture lacaniana e deleuziana di Blue Velvet sembrano incompatibili. Lacan enfatizza la mancanza, il soggetto diviso, la legge simbolica; Deleuze enfatizza la pienezza, i flussi di desiderio, la dissoluzione del soggetto. Lacan cerca la struttura; Deleuze cerca la forza. Eppure il film può contenere entrambe le letture perché Lynch stesso è diviso. Da un lato, è profondamente interessato alla psicoanalisi, al trauma, al sintomo. Dall’altro, è un artista visivo che lavora con intensità pure, con blocchi di sensazioni, con immagini che non vogliono significare ma far sentire. Per Deleuze, Blue Velvet non ci parla del ‘peccato’ di Jeffrey, ma della capacità del cinema di farci vedere l’invisibile: le forze molecolari che brulicano sotto l’erba e che sono identiche alle forze che agitano il cuore umano. Jeffrey non è diviso: è un canale dove passano flussi di luce e flussi di oscurità. Ma forse la vera lezione è che non dobbiamo scegliere. Il film è abbastanza ricco da sopportare entrambe le letture, ed è nella tensione tra loro che emerge la sua potenza filosofica.
Nel momento di maggiore disperazione, quando Jeffrey chiede a Sandy ‘perché il mondo è così brutto?’, Sandy gli racconta un sogno. Ha sognato che il mondo era oscuro e pieno di sofferenza, ma poi sono arrivati migliaia di pettirossi che hanno portato la luce e l’amore. È un’immagine di redenzione, di speranza in una guarigione collettiva. La risposta di Sandy è, filosoficamente parlando, una catastrofe. Sandy cerca di dare un senso alla ‘bruttezza’ dicendo che essa serve a far risaltare la luce. Žižek direbbe che questo è il massimo dell’ideologia: trasformare un orrore senza senso in una lezione morale. Il male non esiste per far risaltare il bene: esiste, punto. Dare un senso teleologico al male (serve per qualcosa) è il modo più efficace di neutralizzarlo, di renderlo accettabile. Jeffrey accetta questa spiegazione perché è l’unico modo per non impazzire. Non può vivere con la consapevolezza nuda del trauma, con la verità che ha visto. Ha bisogno di un fantasma, di una narrazione che renda tollerabile l’intollerabile. Il pettirosso finale che mangia l’insetto è l’immagine di questa ‘soluzione’: la bellezza (il pettirosso) che divora il Reale (lo scarafaggio). Ma quel pettirosso è un automa finto. La pace che Jeffrey trova con Sandy è una pace artificiale, una costruzione ideologica che richiede uno sforzo continuo di mantenimento.
C’è un ultimo livello di lettura che dobbiamo considerare, quello che collega Blue Velvet al progetto teorico di D&G nell’Anti-Edipo. In quel testo radicale, D&G propongono una critica devastante della psicoanalisi: l’Edipo non è una struttura universale della psiche umana, ma un dispositivo di normalizzazione sociale. La psicoanalisi, lungi dall’essere uno strumento di liberazione, è un meccanismo di adattamento del desiderio alle esigenze del capitalismo. Blue Velvet può essere letto come una perfetta illustrazione di questa tesi. Frank non è semplicemente un Edipo patologico: è il prodotto di un certo ordine sociale. La sua violenza non è deviazione individuale ma sintomo collettivo. Perché la società americana produce Frank? Perché ha bisogno di lui? La risposta è che Frank è il rimosso necessario di Lumberton. La normalità borghese si definisce per esclusione: per essere normale, devo espellere tutto ciò che è violento, perverso, oscuro. Ma questa espulsione non elimina la violenza: la concentra, la cristallizza in figure come Frank. Frank è quindi non l’eccezione ma la regola nascosta, non il mostro che minaccia la società ma il prodotto che la società deve generare per funzionare. Questo è il metodo di D&G nell’Anti-Edipo: prendere la psicoanalisi (Edipo, rimozione, sintomo) e mostrarla come meccanismo politico, non solo individuale. La domanda non è ‘perché Frank è malato?’ ma ‘perché la società produce Frank?’
In ultima analisi, Blue Velvet è una critica radicale dell’ideologia americana del dopoguerra. L’american dream – la promessa che chiunque può raggiungere felicità e successo attraverso il duro lavoro, che la famiglia nucleare è il nucleo della società, che i sobborghi verdi sono il paradiso in terra – viene mostrato nel film come una costruzione fragile, sostenuta da massicce rimozioni. Cosa deve essere rimosso perché Lumberton possa funzionare? La violenza sessuale (Dorothy violentata da Frank). La criminalità organizzata (Frank e la sua banda). La corruzione delle istituzioni (il poliziotto corrotto). La povertà e il degrado (i quartieri dove vive Frank). Ma anche, e questo è cruciale, il desiderio stesso nella sua forma non addomesticata. Jeffrey rappresenta il soggetto americano normale che scopre cosa costa la normalità. Per essere un bravo ragazzo americano, deve scindere il suo desiderio: può amare Sandy (amore romantico, matrimonio, famiglia) ma non può desiderare Dorothy (sesso perverso, violenza, trasgressione). Questa scissione non è psicologica ma ideologica: è la società stessa che impone questa divisione. Il finale del film, con il suo ritorno apparente alla normalità, mostra il prezzo di questa rimozione: Jeffrey può tornare a Lumberton solo a patto di dimenticare, di fingere che ciò che ha visto non sia mai accaduto. Ma Lynch ci mostra che questa dimenticanza è attiva, non passiva: è un lavoro continuo di rimozione, una performance che deve essere ripetuta ogni giorno.
Blue Velvet dimostra che il cinema può fare filosofia non descrivendo concetti ma mostrandoli in azione. Lynch non ci spiega cos’è il Reale lacaniano: ce lo fa vedere (l’orecchio, Frank, Dorothy nuda sulla strada). Non ci spiega cosa sia l’immagine-pulsione deleuziana: ce la fa sentire (le formiche sotto il prato, il volto di Frank con la maschera). Questo è ciò che Deleuze intende quando dice che il cinema pensa. Non nel senso che illustra idee filosofiche preesistenti, ma nel senso che produce pensiero attraverso i suoi mezzi specifici: l’immagine in movimento, il suono, il montaggio. Blue Velvet pensa l’ideologia americana, pensa il desiderio, pensa la violenza, pensa il trauma. E lo fa in un modo che nessun testo filosofico potrebbe fare, perché usa l’immagine e il suono per colpirci direttamente, prima di ogni mediazione concettuale. Quando vediamo Jeffrey entrare nell’orecchio, quando sentiamo Frank urlare ‘Mommy’, quando vediamo il pettirosso meccanico, non stiamo semplicemente ricevendo informazioni narrative. Stiamo facendo un’esperienza che ci trasforma, che ci obbliga a pensare. Il cinema di Lynch, al suo meglio, è questo: un dispositivo che ci costringe a pensare attraverso le sensazioni, che ci fa filosofia senza parole.
Blue Velvet rimane, quasi quarant’anni dopo la sua uscita, un’opera di straordinaria potenza filosofica. La sua capacità di condensare in immagini complesse questioni teoriche – la natura del desiderio, la struttura dell’ideologia, il rapporto tra superficie e profondità, la funzione del fantasma – lo rende un testo fondamentale non solo per la storia del cinema ma per la filosofia contemporanea. Il film ci insegna che la normalità non è mai innocente, che ciò che viene escluso ritorna sempre sotto forma di sintomo, che il soggetto è costitutivamente diviso. Ma ci insegna anche – e questo è forse il suo contributo più importante – che questa divisione non è qualcosa da guarire o da superare. È la condizione stessa della nostra esistenza sociale. Jeffrey alla fine non è guarito: ha semplicemente imparato a vivere con la sua divisione. Ha imparato a compartimentare, a tenere separati i due mondi. Questa non è una soluzione, ma è l’unica cosa possibile in una società che produce sistematicamente le contraddizioni che poi ci chiede di gestire individualmente.
Blue Velvet ci lascia con una domanda inquietante: se la normalità richiede tutto questo lavoro di rimozione, tutta questa violenza psichica, vale davvero la pena? O forse dovremmo ripensare cosa significhi ‘normalità’? Il film non dà risposte, ma porre la domanda è già un atto radicale. In questo senso, Blue Velvet è un film profondamente politico mascherato da thriller psicologico. La sua critica non è moralistica (‘la violenza è male’) ma strutturale (‘la società produce la violenza che poi condanna’). E questa critica strutturale è precisamente ciò che rende il film ancora oggi così attuale, così necessario, così disturbante. Perché sotto il nostro prato perfetto, gli insetti continuano a brulicare.
Blue Velvet ha avuto un’influenza enorme sul cinema contemporaneo, ben oltre la sua ricezione critica iniziale. Il film ha aperto la strada a una nuova generazione di cineasti che hanno esplorato il lato oscuro dell’America suburbana, la violenza nascosta sotto la superficie della normalità. Quentin Tarantino ha dichiarato più volte il suo debito verso Lynch. La violenza improvvisa e grottesca di Pulp Fiction, la commistione di culture alte e basse, l’uso della musica pop in contesti inquietanti: tutto questo deriva almeno in parte da Blue Velvet. Ma Tarantino ha trasformato la violenza lynchiana in spettacolo postmoderno, ironico, mentre in Lynch mantiene sempre un fondo di angoscia reale. I fratelli Coen, in particolare in Fargo (1990), hanno ripreso il tema della provincia americana come luogo di violenza assurda. Anche loro mostrano che sotto la gentilezza del Midwest americano (‘Minnesota nice’) si nasconde una capacità di violenza brutale. Ma anche qui c’è una differenza: nei Coen prevale l’ironia, il distacco, mentre Lynch rimane sempre coinvolto emotivamente nel suo materiale. Todd Haynes, in Safe (1995) e soprattutto in Carol (2015), ha ripreso da Lynch l’attenzione ossessiva al dettaglio visivo, all’uso dei colori come linguaggio emotivo, alla critica dell’America degli anni ’50 come era repressiva. Ma Haynes è più apertamente politico, mentre Lynch mantiene un’ambiguità più inquietante.
L’influenza più diretta di Blue Velvet è ovviamente Twin Peaks, la serie televisiva che Lynch ha creato con Mark Frost nel 1990-1991. Twin Peaks riprende esattamente la struttura di Blue Velvet: una piccola città americana apparentemente idillica che nasconde segreti oscuri, un giovane agente FBI (Dale Cooper, il nuovo Jeffrey) che indaga su un crimine che lo porterà sempre più in profondità nell’abisso. Ma Twin Peaks espande enormemente il mondo di Blue Velvet. Se il film durava due ore, la serie originale ne dura trenta, permettendo a Lynch di esplorare con molto maggiore dettaglio la mappa dell’inconscio americano. Ogni personaggio di Twin Peaks ha i suoi segreti, le sue perversioni, i suoi traumi. La città intera diventa un gigantesco sintomo collettivo. Inoltre, Twin Peaks introduce esplicitamente una dimensione metafisica e soprannaturale (la Black Lodge, Bob, il gigante) che in Blue Velvet rimaneva più implicita. L’orrore in Blue Velvet è umano, troppo umano: Frank è terrificante ma è un uomo. In Twin Peaks, Bob è un’entità demoniaca che possiede le persone. Questo spostamento è significativo: Lynch sta portando alla luce, sta rendendo esplicita quella dimensione di male assoluto che in Blue Velvet rimaneva nascosta nella psicologia di Frank.
Blue Velvet è diventato un testo di riferimento per numerosi filosofi e teorici contemporanei, non solo Žižek. Il film offre un campo di applicazione perfetto per testare e sviluppare concetti filosofici, dalla psicoanalisi alla fenomenologia, dall’ontologia alla filosofia politica. Giorgio Agamben, nel suo lavoro sullo stato di eccezione, analizza come il potere sovrano si fondi sulla capacità di sospendere la legge, di creare uno spazio dove la legge normale non vale. Lo stato di eccezione non è l’opposto della legge ma ne è il fondamento nascosto: la legge può funzionare solo perché c’è sempre la possibilità di sospenderla. Lumberton può essere letta come uno spazio dove coesistono due zone: la zona della legge (le case, le famiglie, la polizia) e la zona di eccezione (l’appartamento di Dorothy, i bar di Frank). Frank occupa questo spazio di eccezione: non è semplicemente un criminale che viola la legge, è qualcuno che opera in uno spazio dove la legge non arriva, dove vige solo la violenza nuda. Ma ciò che Agamben mostra, e che Blue Velvet illustra perfettamente, è che questa zona di eccezione non è esterna alla legge: ne è il fondamento. Lumberton ha bisogno di Frank, ha bisogno di questo spazio dove può scaricare tutta la violenza che deve essere espulsa dalla zona legale. Frank è il capro espiatorio necessario, quello che permette alla comunità di mantenersi coesa attraverso la sua esclusione.
Judith Butler, nei suoi lavori sul genere come performance, ha mostrato come maschilità e femminilità non siano nature biologiche ma ruoli sociali che vengono continuamente performati, messi in scena. Non c’è un’identità di genere autentica dietro la performance: l’identità è solo l’effetto della ripetizione della performance stessa. I personaggi di Blue Velvet possono essere letti attraverso questa lente. Frank è iper-mascolino: violento, aggressivo, dominatore. Ma questa mascolinità è palesemente una performance esagerata, quasi una parodia involontaria. Quando Frank si spalma il rossetto, quando canta In Dreams con le lacrime agli occhi, la sua mascolinità si incrina, rivela la sua natura costruita. Dorothy performa la femminilità tradizionale: è la cantante seducente, l’oggetto del desiderio maschile. Ma anche questa performance è distorta dal trauma. Canta Blue Velvet ma la sua voce trema, il suo corpo è rigido. La performance è richiesta, forzata, non spontanea. Ben è forse il personaggio più butleriano del film: la sua performance camp di In Dreams è una parodia consapevole della performance stessa. Con il suo rossetto, i suoi gesti effeminati, il microfono finto, Ben ci mostra che tutta la mascolinità è drag, che non c’è un originale di cui Frank sarebbe la versione autentica e Ben la parodia.
La ricezione critica di Blue Velvet è stata estremamente polarizzata alla sua uscita e ha continuato a evolversi negli anni successivi. Questa evoluzione dice molto sul film ma anche su come cambiano i paradigmi critici e teorici. All’uscita del film nel 1986, le recensioni erano divise. Roger Ebert diede al film solo una stella e mezza su quattro, accusandolo di essere ‘un esercizio di voyeurismo malato’. Altri critici lo difesero come un capolavoro coraggioso. Il dibattito si concentrò soprattutto sulla questione della violenza e della rappresentazione del corpo femminile: il film era misogino o stava criticamente esponendo la misoginia? Negli anni ’90, con l’affermazione degli studi culturali e della teoria lacaniana nel mondo accademico anglofono, Blue Velvet venne sempre più letto come testo teorico, come illustrazione perfetta di concetti psicoanalitici. Žižek lo usò ripetutamente nelle sue lezioni e nei suoi scritti, contribuendo a canonizzare il film come oggetto filosofico. Nel XXI secolo, con l’emergere dei trauma studies e di nuove sensibilità verso la rappresentazione della violenza sessuale, il film è stato riletto ancora una volta. Alcune critiche femministe hanno rivalutato positivamente il film, vedendo in Dorothy non semplicemente una vittima ma un soggetto traumatizzato che cerca di sopravvivere con i mezzi che ha.
Oggi, quasi quarant’anni dopo la sua uscita, Blue Velvet è universalmente riconosciuto come uno dei grandi capolavori del cinema americano degli anni ’80. È regolarmente incluso nelle liste dei migliori film di sempre compilate da critici e cineasti. Ma questa canonizzazione ha anche i suoi pericoli: il film rischia di essere musealizzato, sterilizzato, reso innocuo attraverso l’ammirazione reverenziale. Ciò che è importante mantenere vivo è il carattere disturbante, provocatorio del film. Blue Velvet non dovrebbe essere semplicemente ammirato come virtuosismo formale: dovrebbe continuare a inquietare, a disturbare, a obbligarci a confrontarci con dimensioni scomode del desiderio e della violenza. Il film non ci offre risposte consolatorie, non ci permette di tornare tranquilli alla nostra normalità.
Cosa significa guardare Blue Velvet oggi, nel 2025, quasi quarant’anni dopo la sua realizzazione? Il film è diventato un documento storico degli anni ’80 o mantiene una capacità di interrogare il presente? La risposta è che Blue Velvet è forse più attuale che mai. L’America di oggi, con le sue divisioni laceranti, la sua violenza endemica, il suo rifiuto di confrontarsi con i propri traumi storici (dalla schiavitù al genocidio dei nativi americani), assomiglia sempre più alla Lumberton di Lynch: una superficie di normalità che nasconde sempre più male un abisso di violenza. Il film ci insegna che non possiamo semplicemente desiderare un ritorno alla normalità, perché la normalità stessa è parte del problema. Lumberton non era un paradiso corrotto da Frank: Frank è il prodotto necessario di Lumberton. Finché continueremo a costruire la nostra normalità sull’esclusione e la rimozione della violenza, questa violenza continuerà a ritornare sotto forme sempre più mostruose.
Uno dei concetti più importanti che Slavoj Žižek riprende da Lacan è quello della ‘traversata del fantasma’ (traversée du fantasme). Il fantasma, come abbiamo visto, è quella formazione immaginaria che media il nostro rapporto con il Reale, che rende tollerabile l’esistenza. Attraversare il fantasma significa riconoscerne la natura fittizia senza però poter semplicemente abbandonarlo, perché senza fantasma non potremmo vivere. Jeffrey, alla fine di Blue Velvet, non ha attraversato il fantasma: è semplicemente tornato dentro il fantasma iniziale. Ha visto cosa c’è dietro il prato verde, ha sperimentato il Reale nella forma di Frank e Dorothy, ma poi è tornato a vivere come se nulla fosse successo. Questo non è traversata ma rimozione, è il ritorno dello stesso meccanismo ideologico che Lynch aveva decostruito nelle prime scene del film. Una vera traversata del fantasma implicherebbe riconoscere che il prato verde e gli insetti non sono due realtà separate ma aspetti dello stesso piano di realtà, che non possiamo semplicemente scegliere la superficie e ignorare la profondità. Implicherebbe vivere con questa contraddizione senza risolverla, mantenendo simultaneamente la consapevolezza della finzione (il prato è un fantasma) e la necessità della finzione (senza il fantasma del prato non potremmo vivere a Lumberton). Il film stesso, nella sua struttura, ci offre la possibilità di questa traversata. Noi spettatori vediamo chiaramente che il pettirosso finale è meccanico, che la pace restaurata è falsa. Ma continuiamo a guardare, continuiamo a voler credere nel lieto fine. Questa tensione irrisolta è precisamente il punto: Lynch ci costringe a vivere la contraddizione senza offrirci una soluzione.
Žižek distingue tra ideologia ingenua e ideologia cinica. L’ideologia ingenua crede letteralmente nel fantasma: pensa che il prato sia davvero verde e perfetto. L’ideologia cinica sa che il fantasma è falso ma continua ad agire come se fosse vero: sa che sotto il prato ci sono gli insetti ma finge che non ci siano. La posizione cinica sembra più sofisticata, più consapevole, ma Žižek mostra che è in realtà ancora più ideologica. Il cinico crede di essere immune dall’ideologia perché la vede, ma proprio questa credenza lo intrappola ancora più profondamente. Jeffrey nel finale è un cinico: sa cosa c’è sotto il prato ma finge che non ci sia, e questa finzione consapevole è peggiore dell’innocenza iniziale. La vera traversata del fantasma non è né ingenuità né cinismo ma qualcosa di più difficile: è mantenere simultaneamente la consapevolezza critica e l’investimento affettivo, sapere che il fantasma è falso ma sentirne comunque la necessità. È vivere la contraddizione senza risolverla né in un senso (ingenuità) né nell’altro (cinismo).
D&G, nell’Anti-Edipo e in Mille piani, sviluppano il concetto di ‘corpo senza organi’ (CsO). Il CsO non è un corpo privo di organi ma un corpo liberato dall’organizzazione funzionale degli organi, dalla loro finalizzazione sociale e riproduttiva. È un campo di intensità pure, non ancora catturato dal significante, non ancora disciplinato dalla macchina sociale. Frank Booth può essere letto come tentativo disperato e fallito di raggiungere il CsO. Quando inala il gas, sta cercando di destratificarsi, di dissolvere i confini del suo io, di diventare puro flusso. Il gas dovrebbe portarlo al di là dell’organismo, in una zona di intensità pura dove non ci sono più distinzioni tra soggetto e oggetto, tra sé e altro. Ma Frank non riesce a destratificarsi completamente. Ricade sempre nell’Edipo (‘Mommy!’), nella paranoia (tutti sono nemici), nella violenza. Il suo tentativo di raggiungere il CsO collassa su se stesso, diventa rigidità, fascismo. D&G avvertono che la destratificazione può essere pericolosa: se procede troppo velocemente o troppo violentemente, può produrre non liberazione ma il suo opposto, il corpo canceroso o fascista. Jeffrey rappresenta l’opposto: la riterritorializzazione, il ritorno ai codici sociali dopo un breve momento di deterritorializzazione. Quando torna con Sandy, quando accetta il pettirosso e la torta di mele, sta scegliendo la stabilità dell’organismo contro l’intensità del CsO. Ha avuto paura del divenire, ha rifiutato la linea di fuga.
Per D&G, il capitalismo è una macchina paradossale: da un lato, è il sistema più deterritorializzante mai esistito. Dissolve tutte le vecchie codificazioni (la famiglia tradizionale, la comunità locale, le identità fisse), trasforma tutto in flussi (di merci, di denaro, di persone). Dall’altro lato, deve continuamente riterritorializzare questi flussi, deve ricatturarli in nuove codificazioni. Lumberton è perfetta illustrazione di questo processo. La città appare come l’incarnazione dei valori tradizionali americani (famiglia, comunità, ordine). Ma questi valori sono già spettrali, già svuotati: sono simulacri, immagini pubblicitarie di un’America che forse non è mai esistita. Il capitalismo ha dissolto le comunità reali ma ha prodotto l’immagine della comunità come merce da vendere. Frank è il flusso decodificato che sfugge al controllo: pura intensità capitalistica che non riesce più a essere catturata dai vecchi codici morali. Non rispetta la famiglia, la legge, la proprietà. È l’anti-produzione al cuore della produzione, il caos che il capitalismo genera ma di cui ha paura. Il finale mostra la riterritorializzazione: Frank viene eliminato (il flusso decodificato viene bloccato) e l’ordine viene restaurato. Ma questo ordine restaurato è già differente da quello iniziale: Jeffrey non è più innocente, sa cosa ha dovuto essere eliminato per mantenere l’ordine. La riterritorializzazione non è mai un semplice ritorno ma sempre la produzione di una nuova codificazione.
Sigmund Freud, nel suo saggio sul ‘Perturbante’ (Das Unheimliche, 1919), analizza quella particolare qualità di angoscia che deriva dall’incontro con qualcosa che è simultaneamente familiare ed estraneo. Il perturbante non è semplicemente lo strano o l’esotico: è ciò che dovrebbe rimanere nascosto (heimlich) ma che emerge, che ritorna. L’esempio paradigmatico per Freud è la casa: il luogo per eccellenza del familiare (heimlich significa letteralmente ‘domestico’) che si trasforma nel suo opposto, nel luogo dell’orrore. Blue Velvet è interamente costruito su questa dinamica del perturbante. Lumberton dovrebbe essere il luogo più familiare, più heimlich: è l’America ideale, la hometown, il posto dove si cresce. Ma si rivela essere profondamente unheimlich, profondamente perturbante. Anche la struttura visiva del film gioca sul perturbante: le immagini dell’apertura (il prato, le rose, lo steccato) sono immagini archetipiche dell’American Dream, le abbiamo viste mille volte. Ma proprio questa familiarità eccessiva le rende inquietanti. Sono troppo perfette, troppo saturate, troppo vicine al cliché. La familiarità stessa diventa perturbante. Il perturbante freudiano è legato al ritorno del rimosso: ciò che è stato rimosso dalla coscienza ritorna sotto forma perturbante. L’orecchio mozzato è letteralmente il ritorno di ciò che è stato tagliato via, separato, rimosso. Gli insetti sotto il prato sono il ritorno di ciò che doveva rimanere nascosto. Frank Booth è il ritorno di tutto ciò che Lumberton ha dovuto espellere per mantenere la sua identità pulita.
Freud identifica il tema del doppio (Doppelgänger) come una delle manifestazioni principali del perturbante. Il doppio è inquietante perché mette in questione l’unità e l’unicità del sé, suggerisce che l’identità non è così stabile come vorremmo credere. Blue Velvet è ossessionato dal tema del doppio. Jeffrey e Frank sono doppi: Frank dice esplicitamente ‘You’re like me’. Sandy e Dorothy sono doppi: la ragazza della luce e la donna dell’ombra, ma entrambe desiderate da Jeffrey. Lumberton-diurna e Lumberton-notturna sono doppie. Il pettirosso reale (quello del sogno di Sandy) e il pettirosso meccanico (quello del finale) sono doppi. Questo sdoppiamento continuo crea un’instabilità ontologica: non sappiamo mai quale dei due termini è l”originale’ e quale la ‘copia’. Frank è la verità nascosta di Jeffrey o Jeffrey è la maschera sociale di Frank? Il pettirosso meccanico è una brutta copia del pettirosso reale o il pettirosso reale era già sempre una fantasia, e il meccanico è la verità della sua artificialità? Il perturbante deriva precisamente da questa indecidibilità. Non possiamo stabilizzare il senso, non possiamo decidere cosa è vero e cosa è falso. Siamo costretti a vivere nella tensione, nell’incertezza, nell’angoscia.
Blue Velvet dimostra in modo esemplare che il cinema può essere filosofia non nel senso di illustrare tesi filosofiche preesistenti, ma nel senso di produrre pensiero attraverso i suoi mezzi specifici: l’immagine in movimento, il suono, il montaggio, la durata. Lynch non ‘applica’ Lacan o Deleuze: il suo film pensa il desiderio, pensa il trauma, pensa l’ideologia attraverso il cinema. Quando la macchina da presa scende sotto il prato e ci mostra gli insetti, non sta semplicemente illustrando il concetto lacaniano di Reale. Sta producendo un’esperienza visiva e sonora che ci fa sentire cosa significa incontrare il Reale: il disagio fisico, la nausea, l’impossibilità di guardare via. Questa è filosofia fatta cinema, pensiero fatto immagine. Il filosofo francese Gilles Deleuze, nei suoi due volumi sul cinema, aveva intuito esattamente questo: il cinema non illustra concetti ma crea concetti attraverso le immagini. L’immagine-movimento, l’immagine-tempo, l’immagine-cristallo non sono categorie astratte applicate al cinema: emergono dall’analisi del cinema stesso, sono concetti che il cinema produce. Blue Velvet produce concetti: il concetto di superficie/profondità non come opposizione statica ma come reversibilità continua; il concetto di normalità/perversione non come alternative ma come complementari necessari; il concetto di visione/coinvolgimento non come separati ma come intrinsecamente connessi.
Una dimensione importante del film che merita attenzione filosofica è l’uso sistematico del disgusto. Lynch ci obbliga a guardare cose disgustose: l’orecchio mangiato dalle formiche, gli insetti che brulicano, le secrezioni corporee, la violenza sessuale. Il disgusto non è semplicemente un effetto collaterale: è una strategia estetica e filosofica precisa. Il disgusto, come ha mostrato il filosofo Aurel Kolnai, è un’emozione legata alla contaminazione, al contatto indesiderato, alla violazione dei confini tra ciò che è dentro e ciò che è fuori il corpo. Ciò che disgusta è tipicamente qualcosa che sta nel confine: le secrezioni corporee sono dentro il corpo quando sono dentro, diventano disgustose quando escono. Lynch usa il disgusto per costringerci a confrontarci con la materialità del corpo, con ciò che la cultura normalmente rimuove o nasconde. L’orecchio mozzato è disgustoso perché è un pezzo di corpo separato dal tutto, è materia organica che diventa pura materia. Gli insetti sono disgustosi perché ci ricordano che anche noi siamo materia organica destinata alla decomposizione. Ma c’è anche una dimensione politica del disgusto. La società borghese si costruisce attraverso la rimozione di ciò che è disgustoso: i rifiuti devono essere nascosti, i corpi malati devono essere ospedalizzati, i poveri devono essere confinati nei ghetti. Mostrare il disgustoso è quindi un atto politico: significa rifiutare questa rimozione, costringere la società a confrontarsi con ciò che espelle.
Con la scomparsa di David Lynch all’inizio del 2025, si chiude una delle più straordinarie avventure artistiche del cinema contemporaneo. Blue Velvet rimane uno dei suoi capolavori assoluti, il film dove la sua visione ha trovato la formulazione più perfetta e disturbante. L’eredità di Lynch va ben oltre il cinema: ha influenzato la televisione (Twin Peaks ha cambiato per sempre il linguaggio delle serie TV), l’arte contemporanea (molti artisti visivi si sono ispirati alle sue immagini), la musica (ha collaborato con Angela Badalamenti, Julee Cruise, e nel XXI secolo con artisti come Danger Mouse e Sparklehorse). Ma soprattutto, Lynch ha lasciato un modo di guardare: ci ha insegnato a vedere le crepe nella superficie, a non accontentarci delle apparenze, a sospettare di ogni immagine troppo perfetta. In un’epoca di immagini infinite, di superfici scintillanti, di realtà virtuali, questa lezione è più preziosa che mai.
Blue Velvet ci dice: sotto ogni prato perfetto ci sono gli insetti. Non possiamo eliminarli, non possiamo fingere che non ci siano. Possiamo solo imparare a vivere con questa consapevolezza, senza cedere né all’ingenuità né al cinismo. Questa è forse la lezione filosofica più importante del film: la necessità di una lucidità che non diventi disperazione, di una critica che non diventi nichilismo. Il cinema di Lynch, e Blue Velvet in particolare, continuerà a interrogarci, a disturbarci, a costringerci a pensare. Finché ci saranno spettatori disposti ad accettare la sfida, finché ci saranno persone che non si accontentano delle risposte facili, questi film rimarranno vivi, necessari, urgenti.
Un aspetto finora meno esplorato è il rapporto complesso che Blue Velvet intrattiene con il linguaggio verbale. Lynch è notoriamente diffidente verso i dialoghi eccessivamente esplicativi, preferendo comunicare attraverso immagini e suoni. Ma in Blue Velvet il linguaggio verbale gioca un ruolo cruciale e altamente problematico. Frank Booth non comunica: urla, impone, ordina. Il suo linguaggio è performativo nel senso più brutale: quando dice ‘Don’t you fucking look at me!’ non sta descrivendo uno stato di cose, sta producendo un effetto immediato attraverso la pura forza illocutoria dell’enunciato. Il filosofo J.L. Austin distingueva tra constatativi (enunciati che descrivono) e performativi (enunciati che fanno). Frank usa solo performativi, ma performativi violenti, che non chiedono consenso ma lo impongono attraverso la forza. I rituali linguistici di Frank sono significativi: ‘Mommy’, ‘Baby wants to fuck’, ‘Heineken? Fuck that shit! Pabst Blue Ribbon’. Sono formule ripetute ossessivamente, mantra che non hanno vero significato comunicativo ma funzionano come scariche pulsionali. Lacan diceva che nel discorso psicotico il significante si separa dal significato, diventa pura materialità sonora. Frank è ai confini della psicosi: le sue parole sono suoni, non sensi.
Dorothy, al contrario di Frank, è spesso silenziosa. Quando parla, la sua voce è flebile, incerta, come se avesse dimenticato come si usa il linguaggio. Canta Blue Velvet sul palco, ma quella canzone non è sua: sono parole scritte da altri, una performance forzata. La sua vera voce sembra esserle stata tolta dal trauma. C’è una scena particolarmente significativa: quando Jeffrey le chiede perché sopporta Frank, Dorothy non risponde. Non è che non vuole rispondere: è che non ha parole per descrivere ciò che le sta succedendo. Il trauma eccede il linguaggio, resiste alla narrativizzazione. Questo silenzio non è assenza di significato ma presenza del Reale che non si lascia simbolizzare. Cathy Caruth, nei suoi studi sul trauma, ha mostrato come l’esperienza traumatica si caratterizzi proprio per questa resistenza alla narrazione. Il traumatizzato non riesce a raccontare cosa gli è successo perché l’evento traumatico non è mai stato pienamente vissuto, pienamente registrato dalla coscienza. Rimane un buco nella memoria, un’assenza che ritorna ossessivamente sotto forma di incubi, flashback, sintomi somatici.
Blue Velvet pone allo spettatore una questione etica fondamentale: qual è la nostra responsabilità per ciò che vediamo? Quando guardiamo Jeffrey che guarda Dorothy violentata da Frank, quale posizione occupiamo? Il film ci mette in una posizione impossibile: siamo simultaneamente voyeur (come Jeffrey nell’armadio) e testimoni (di un crimine che dovremmo denunciare). Ma non possiamo denunciare nulla perché è un film, è finzione. Oppure dovremmo denunciare proprio questa finzione, questo modo di rappresentare la violenza? Emmanuel Levinas, nella sua etica del volto, afferma che l’incontro con il volto dell’altro è l’evento etico fondamentale. Il volto dell’altro mi interpella, mi chiama a responsabilità, mi dice ‘non uccidermi’. Ma cosa succede quando il volto che incontro è mediato dallo schermo cinematografico? Quando il volto di Dorothy che soffre è un’immagine, non una persona reale? Lynch non ci permette di risolvere comodamente questa tensione. Non possiamo semplicemente dire ‘è solo un film’ perché il film ci ha già coinvolti troppo profondamente. Dorothy ci guarda, il suo dolore ci interpella. Ma non possiamo nemmeno agire, intervenire, salvare. Siamo paralizzati in questa posizione di testimoni impotenti.
Forse il film ci sta dicendo qualcosa di più radicale: che il cinema stesso, nella sua struttura voyeuristica, è eticamente problematico. Christian Metz, teorico del cinema, aveva identificato il voyeurismo come struttura fondamentale dell’esperienza cinematografica: guardiamo senza essere visti, vediamo senza poter intervenire. Ma Lynch, mostrando il voyeurismo (Jeffrey nell’armadio), ci obbliga a riflettere sul nostro voyeurismo. Non possiamo più guardare innocentemente. Ogni volta che guardiamo, sappiamo di essere in posizione di Jeffrey, sappiamo di essere complici. Questa complicità non può essere sciolta. Non possiamo smettere di guardare (se lo facessimo, non ci sarebbe film, non ci sarebbe esperienza estetica). Ma non possiamo nemmeno guardare innocentemente. Siamo condannati a questa posizione eticamente compromessa, esattamente come Jeffrey è condannato a vivere tra due mondi senza poter abitare pienamente nessuno dei due.
Per comprendere pienamente la singolarità di Blue Velvet, è utile confrontarlo con altri film americani degli anni ’80 che hanno affrontato temi simili: la violenza nascosta sotto la superficie della normalità americana. After Hours (1985) di Martin Scorsese esce un anno prima di Blue Velvet e condivide con esso il tema della discesa notturna in un mondo di violenza e stranezza. Il protagonista, Paul Hackett, lascia la sicurezza del suo appartamento e del suo lavoro d’ufficio per avventurarsi nel Lower East Side di New York, dove tutto diventa sempre più surreale e minaccioso. Ma c’è una differenza fondamentale: in After Hours la stranezza è esterna, geografica. Paul è un turista nel mondo strano, può sempre tornare (anche se con difficoltà) nel suo mondo normale. In Blue Velvet la stranezza è interna: Lumberton stessa è il luogo strano, non c’è da nessuna parte dove tornare. Jeffrey non può semplicemente lasciare la città e tornare alla normalità perché la scoperta che ha fatto riguarda la struttura stessa della normalità. Inoltre, Scorsese mantiene una struttura narrativa relativamente classica, con una logica di causa-effetto. Lynch invece dissolve la logica narrativa in favore di atmosfere, intensità, blocchi di sensazioni. After Hours è un incubo ma è un incubo che mantiene una coerenza onirica. Blue Velvet va oltre: è un incubo che si confonde con la veglia, è un’allucinazione che potrebbe essere la realtà. Do the Right Thing (1989) di Spike Lee affronta il tema della violenza razziale nell’America urbana. Anche qui c’è una superficie di normalità (il quartiere di Brooklyn in una giornata d’estate) che esplode in violenza. Ma Lee è molto più esplicitamente politico di Lynch: la violenza in Do the Right Thing ha cause chiare (razzismo, povertà, brutalità poliziesca), mentre in Blue Velvet le cause rimangono più enigmatiche. Lee mostra come la violenza sia prodotta da strutture sociali specifiche e storicamente determinate. Lynch invece sembra suggerire che la violenza sia quasi ontologica, parte della struttura stessa del desiderio umano. Questa differenza riflette anche contesti biografici e culturali diversi: Lee parla dalla prospettiva della comunità afro-americana, con una tradizione di resistenza politica; Lynch parla dalla prospettiva della provincia bianca americana, con le sue rimozioni e i suoi segreti inconfessabili.
Un ultimo nodo teorico che merita attenzione approfondita è la questione della rappresentazione stessa. Quando mostriamo la violenza, quando rappresentiamo il trauma, cosa stiamo facendo esattamente? Stiamo denunciando o stiamo riproducendo? Stiamo criticando o stiamo perpetuando? Theodor Adorno, dopo Auschwitz, aveva dichiarato che scrivere poesia dopo Auschwitz era barbaro. Con questo non intendeva che non si dovesse più scrivere, ma che non si poteva più scrivere innocentemente, senza confrontarsi con l’impossibilità di rappresentare adeguatamente l’orrore. Blue Velvet affronta questo problema rappresentando la violenza in modo frontale ma anche problematizzandola. Quando vediamo Frank stuprare Dorothy, Lynch non ci permette di godere esteticamente di quella violenza (come farebbe un film exploitation), ma non ci permette nemmeno di condannarla comodamente dall’esterno. Siamo coinvolti, implicati, contaminati. La rappresentazione in Lynch non è mai trasparente: è sempre mediata, filtrata, problematizzata. Le scene di violenza sono montate in modo disturbante, con cambi di inquadratura che ci obbligano a cambiare posizione, a non stabilizzarci in nessuno sguardo. Il suono è amplificato, distorto, reso insopportabile. Lynch ci sta dicendo: vedere non è neutro, rappresentare non è neutro. In conclusione, Blue Velvet rimane un’opera fondamentale per chiunque voglia riflettere filosoficamente sul cinema, sul desiderio, sulla violenza, sull’ideologia. Non offre risposte semplici, non consolazione, non catarsi. Offre solo la possibilità di pensare, di confrontarsi con dimensioni dell’esperienza che preferiremmo ignorare. E questa è forse la funzione più preziosa che l’arte può svolgere oggi: non tranquillizzarci ma inquietarci, non confermare le nostre certezze ma metterle in questione. Blue Velvet continua, quasi quarant’anni dopo, a fare esattamente questo.