Con questo articolo iniziamo un percorso che ci porterà a incontrare due dei più importanti pensatori del cinema del Novecento, Siegfried Kracauer e Gilles Deleuze. Ma prima di addentrarci nei testi specifici, dobbiamo comprendere chi era Kracauer, quale progetto intellettuale lo animava, e perché il cinema diventa per lui un oggetto teorico privilegiato per comprendere la modernità capitalistica e le sue catastrofi. Questo percorso è guidato da un’ipotesi di fondo audace, quella che Kracauer e Deleuze, pur operando con strumenti diversi e in epoche diverse, condividano una comprensione profonda del cinema come macchina di pensiero, come laboratorio dove si producono e si rivelano nuove forme di soggettività, nuovi rapporti con il tempo e lo spazio, nuove modalità di esperienza della crisi storica. Il cinema weimariano – quello che Kracauer analizza nel suo libro più famoso, Da Caligari a Hitler – sarà il nostro banco di prova per testare questa ipotesi.
Siegfried Kracauer nasce nel 1889 a Francoforte sul Meno, in una famiglia ebraica della media borghesia. Studia architettura e lavora per alcuni anni come architetto, ma è un’esperienza che lo lascia profondamente insoddisfatto. L’architettura del primo Novecento, dominata dal funzionalismo razionalista, gli appare fredda, disumana, incapace di rispondere ai bisogni esistenziali delle persone. Questa esperienza è importante perché Kracauer sviluppa fin da subito una sensibilità acuta per le forme materiali della vita moderna, gli spazi urbani, gli edifici, le vetrine, i luoghi di lavoro. La modernità non è per lui un’idea astratta, ma un insieme di spazi concreti, di architetture, di superfici che modellano l’esperienza quotidiana.
Negli anni ’20, Kracauer abbandona l’architettura e diventa critico culturale per la Frankfurter Zeitung, uno dei più importanti giornali liberali tedeschi. È qui che sviluppa il suo stile unico: non si occupa di “alta cultura” (letteratura, teatro classico, filosofia accademica), ma di cultura popolare di massa – cinema, varietà, fotografia, sport, le ragazze Tiller (ne parleremo tra poco), gli impiegati, le sale da ballo. Questa scelta non è casuale. Kracauer è convinto che per comprendere la modernità capitalistica non si debba guardare a ciò che la borghesia colta considera “arte”, ma a ciò che le masse consumano quotidianamente, spesso in modo distratto, irriflesso. È lì, nelle forme culturali popolari, che si rivelano le disposizioni psicologiche collettive, le tendenze profonde di un’epoca.
Nel 1933, con l’avvento del nazismo, Kracauer – ebreo e intellettuale di sinistra – deve fuggire dalla Germania. Passa per Parigi, poi raggiunge gli Stati Uniti. È in esilio, tra il 1943 e il 1947, che scrive Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco. Il libro nasce da una domanda ossessiva: come è stato possibile il nazismo? E soprattutto: c’erano segni premonitori nella cultura di massa tedesca degli anni ’20? Il cinema weimariano aveva in qualche modo “anticipato” la catastrofe? Più tardi, nel 1960, pubblicherà Theory of Film (Film: ritorno alla realtà fisica), un libro più sistematico sulla natura ontologica del cinema. Ma è Da Caligari a Hitler il testo che ci interessa di più, perché è lì che Kracauer sviluppa il suo metodo sintomatologico applicato al cinema.
Uno dei maestri intellettuali di Kracauer è il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel (1858-1918). Simmel aveva scritto un saggio fondamentale, La metropoli e la vita mentale (1903), in cui analizzava come la città moderna – Berlino, Parigi – produca un nuovo tipo di soggettività, l’individuo blasé, sovrastimolato, distratto, incapace di relazioni profonde. La metropoli moderna bombarda i sensi con una quantità eccessiva di stimoli (luci, rumori, traffico, pubblicità, vetrine). Per difendersi, l’individuo sviluppa un atteggiamento blasé: una sorta di indifferenza protettiva, una superficialità calcolata. Non ci si può permettere di essere emotivamente coinvolti da tutto, altrimenti si implode.
Può essere interessante considerare due tipi di individuo metropolitano complementari, il blasé e il flâneur, descritto prima da Baudelaire e poi da Benjamin. Entrambe le figure nascono dalla necessità di gestire l’eccesso di stimoli nervosi della grande città (la Parigi di Baudelaire e la Berlino di Simmel). Simmel descrive la metropoli come una fonte incessante di “stimolazioni nervose” che costringono l’individuo a creare una barriera protettiva. Baudelaire (ripreso poi da Benjamin) vede la folla come un urto continuo, un’esperienza traumatica che richiede una nuova sensibilità artistica. L’individuo blasé di Simmel sviluppa indifferenza e distacco per attutire le differenze fra le cose, usa la ragione e il calcolo per non farsi travolgere dalle emozioni e per preservare la propria integrità psichica dal caos metropolitano. Il flâneur si abbandona alla folla, cercando l’eccitazione e la “bellezza” nel fugace, cerca lo shock, lo trasforma in immagine e poesia, è un detective di segni, un “botanico del marciapiede” che gode dell’anonimato. Entrambi condividono la condizione di estraneità. sono “nella folla ma non della folla”. Il blasé mantiene una distanza per sopravvivenza sociale; il flâneur mantiene una distanza per poter osservare meglio. Entrambi usano l’anonimato della città come uno scudo o come una lente d’ingrandimento. Possiamo dire che il blasé è la figura del cittadino che è stato “sconfitto” o saturato dalla metropoli e ha dovuto spegnere la propria sensibilità per restare lucido. Il flâneur, invece, è colui che cavalca quella stessa ondata di stimoli, trasformando lo shock in una forma di piacere estetico. Kracauer riprende questa intuizione simmeliana e la applica al cinema e alla cultura di massa. Il cinema, con il suo ritmo veloce, il montaggio rapido, le immagini che si susseguono senza sosta, è la forma estetica perfetta per l’individuo metropolitano moderno. Non richiede concentrazione profonda, contemplazione, ma offre distrazione organizzata.
Un altro riferimento fondamentale è Walter Benjamin (1892-1940), filosofo e critico letterario, amico di Kracauer. Nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin sostiene che la fotografia e il cinema modificano radicalmente il modo in cui percepiamo le opere d’arte. L’arte tradizionale (pittura, scultura) richiedeva contemplazione, attenzione concentrata, un rapporto quasi sacrale con l’opera (quello che Benjamin chiama “aura”). Il cinema invece è riproducibile all’infinito (non c’è “originale”), fruibile collettivamente (in sala, tra le masse), percepito in modo distratto (non si va al cinema per concentrarsi, ma per rilassarsi, svagarsi). Benjamin vede in questo un potenziale emancipatorio: il cinema può sottrarre l’arte al monopolio delle élite, renderla democratica. Ma vede anche i pericoli: il fascismo userà proprio questa capacità del cinema di mobilitare le masse attraverso immagini spettacolari. Benjamin usa una metafora bellissima per distinguere il pittore dal cineasta. Il pittore è come un mago, mantiene una distanza naturale tra sé e ciò che rappresenta. Il cineasta è come un chirurgo, penetra profondamente nel tessuto della realtà, frammentandola in tanti pezzi (le inquadrature) per poi ricomporla secondo una nuova legge (il montaggio). L’analogia con la fotografia sta nel fatto che entrambi usano un mezzo tecnico per superare i limiti dell’occhio umano, ma il cinema “opera” sulla realtà in modo molto più aggressivo e analitico. Il cinema è, per Benjamin, l’arma definitiva contro l’aura (l’ “apparizione unica di una lontananza”). Mentre la fotografia permetteva di riprodurre un’opera d’arte (un quadro), il cinema produce un’opera che non ha un originale. Non esiste “la prima” pellicola nel senso di un pezzo unico, il cinema nasce per essere proiettato ovunque contemporaneamente. Questa è l’analogia massima: la fotografia ha iniziato a “portare le cose vicine” spazialmente e umanamente, il cinema completa il processo rendendo l’arte fruibile dalle masse. Benjamin nota un’analogia tra la struttura del cinema e la vita moderna, il cinema, con il suo rapido mutare di inquadrature, produce uno shock visivo che impedisce allo spettatore di abbandonarsi alla contemplazione (come si farebbe davanti a un quadro), questo shock è lo stesso che prova l’individuo nella folla metropolitana. Il cinema è quindi la “palestra” dei sensi per l’uomo moderno, ci educa a reagire rapidamente agli stimoli. Infine, Benjamin coglie un punto fondamentale: proprio perché il cinema è riproducibile e fruibile collettivamente, esso sposta l’opera d’arte dal dominio del rituale (l’arte per gli dei o per pochi eletti) al dominio della politica. Il cinema permette alle masse di vedere se stesse e di analizzare la realtà sociale. Kracauer condivide molte intuizioni di Benjamin, ma è più pessimista. Per Kracauer, la distrazione non è automaticamente emancipativa. Può essere anche un modo per anestetizzare le masse, per renderle incapaci di pensiero critico.
Il rapporto tra Siegfried Kracauer e la Scuola di Francoforte è stato intenso ma asimmetrico, una profonda amicizia intellettuale che non si è mai trasformata in una piena appartenenza formale. Kracauer fu colui che introdusse un giovanissimo Theodor W. Adorno alla filosofia, leggendo insieme a lui la Critica della ragion pura di Kant ogni sabato pomeriggio. Adorno dichiarò di dover a Kracauer più che a tutti i suoi maestri accademici. Condivideva con la Scuola l’interesse per la critica della cultura di massa e l’analisi dei fenomeni sociali marginali (come il cinema o il mondo degli impiegati) come specchi della realtà profonda del capitalismo. Nonostante la vicinanza, Kracauer rimase sempre un “outsider”. La Scuola (specialmente Adorno) criticava il suo approccio talvolta giudicato troppo “fenomenologico” o poco sistematico. Kracauer, d’altro canto, diffidava dell’eccessiva astrazione teorica dei francofortesi, preferendo un contatto più diretto con la “superficie” materiale delle cose. La Scuola di Francoforte, negli anni ’30 e ’40, sviluppa una critica radicale dell'”industria culturale”: il capitalismo tardivo non produce solo merci materiali, ma anche merci culturali (film, musica popolare, radio), che servono a manipolare le masse, a renderle docili consumatrici. Adorno e Horkheimer, in Dialettica dell’Illuminismo (1947), sono durissimi con Hollywood: il cinema americano è pura ideologia, produce soggetti passivi, standardizzati, incapaci di autonomia critica. Kracauer è più sfumato. Non nega che il cinema possa essere manipolatorio, ma crede anche che il cinema – proprio perché è una forma artistica legata alla realtà fisica, alle superfici materiali del mondo – conservi un potenziale di verità. Il cinema può rivelare aspetti della realtà che sfuggono alla coscienza razionale. Può essere sintomo, può mostrare ciò che la società rimuove. Questa tensione – il cinema come manipolazione vs. il cinema come rivelazione – attraversa tutto il lavoro di Kracauer.
Quando Kracauer parla di cinema come sintomo, usa il termine in senso quasi psicoanalitico. Un sintomo, in Freud, è una formazione di compromesso, rivela qualcosa dell’inconscio del paziente, ma in modo mascherato, distorto. Il paziente non sa cosa sta rivelando attraverso il sintomo. Allo stesso modo, il cinema – prodotto collettivo, commerciale, destinato all’intrattenimento di massa – rivela disposizioni psicologiche collettive che la società stessa non riconosce consapevolmente. Se negli anni ’20 i film tedeschi sono ossessionati da figure di tiranni ipnotici (Caligari, Mabuse, Nosferatu), questo non significa che i registi e gli sceneggiatori volessero coscientemente preparare il terreno per Hitler, significa che c’era una disposizione inconscia nel pubblico tedesco – una fascinazione ambivalente per l’autorità, un desiderio di sottomissione mescolato a terrore – che si rifletteva nei film.
Kracauer sostiene che il cinema è particolarmente adatto a rivelare questi sintomi collettivi per varie ragioni. Un film non è opera di un singolo autore (come un romanzo o un quadro), ma il risultato di un processo industriale complesso, produttori, registi, sceneggiatori, attori, tecnici, distributori. E soprattutto, il film deve “piacere” al pubblico per avere successo commerciale. Quindi il film è sempre già una negoziazione tra intenzioni artistiche individuali e desideri collettivi del pubblico. È questa dimensione collettiva che lo rende sintomatico. Il cinema non viene consumato in solitudine, in concentrazione contemplativa, ma in sala, tra le masse, in modo distratto. Proprio perché il pubblico non è in “stato critico”, le difese razionali sono abbassate, e le disposizioni inconsce emergono più facilmente.Il cinema, infine, a differenza della letteratura o della musica, è fatto di immagini fotografiche, che catturano frammenti del mondo fisico. Anche quando il film è fantastico, irreale (come Caligari), utilizza elementi materiali, corpi, oggetti, architetture, luci. Questa aderenza al reale rende il cinema un medium particolarmente potente per rivelare la “superficie” della vita sociale.
Il metodo di Kracauer combina un momento fenomenologico (descrizione), descrive minuziosamente i film, non si limita alla trama, ma analizza come i film sono fatti, inquadrature, movimenti di macchina, luci, ambientazioni, gesti degli attori, ritmi narrativi, in un lavoro quasi da entomologo, osserva i dettagli, i motivi ricorrenti, le ossessioni visive e un momento interpretativo (sintomatologia), una volta individuati i motivi ricorrenti, Kracauer li interpreta come sintomi di disposizioni psicologiche collettive. La ricorrenza di figure di “sonnambuli” nel cinema weimariano (Cesare in Caligari, i vampiri che ipnotizzano, gli automi) viene interpretata come sintomo di una popolazione che si sente passiva, manipolata, incapace di agire autonomamente. Questo metodo è vicino all’iconologia di Erwin Panofsky (storico dell’arte che studiava i “programmi iconografici” nelle opere d’arte rinascimentali), ma applicato alla cultura di massa contemporanea.
Nel 1927, Kracauer scrive uno dei suoi saggi più celebri: La massa come ornamento. Il punto di partenza è apparentemente banale: le Tiller Girls, un gruppo di ballerine inglesi che si esibivano nei music-hall e nei cinema berlinesi. Non erano ballerine “artistiche” come quelle del balletto classico. Erano un corpo di ballo geometrico, sincronizzato, fatto di ragazze quasi intercambiabili che eseguivano movimenti precisi, ripetitivi, formando figure ornamentali perfette. Kracauer vede in questo spettacolo qualcosa di profondamente rivelatore della modernità capitalistica. Le Tiller Girls sono l’equivalente estetico della catena di montaggio fordista. Come gli operai in fabbrica, le ballerine sono unità intercambiabili, i cui movimenti sono calcolati, cronometrati, ottimizzati. La bellezza dello spettacolo non sta nell’espressione individuale, ma nella perfezione geometrica del collettivo. Ma c’è una differenza cruciale; mentre la catena di montaggio produce merci utili, le Tiller Girls producono solo ornamento, pura superficie visiva senza funzione. Sono l’allegoria perfetta del capitalismo tardivo: razionalizzazione senza scopo, efficienza fine a se stessa.
Kracauer scrive:
“Il principio dell’organizzazione che governa le Tiller Girls è quello stesso che governa la produzione capitalistica razionalizzata. […] Ma mentre nella produzione industriale il processo razionalizzato serve a produrre valori, qui produce solo sé stesso. L’ornamento di massa è fine a se stesso.”
Questo è un punto fondamentale. Il capitalismo non produce solo beni di consumo, produce anche spettacoli, immagini, superfici ornamentali che catturano l’attenzione delle masse e queste superfici hanno una funzione ideologica, distraggono dalla realtà sociale, dalla divisione di classe, dallo sfruttamento, offrono un piacere immediato, superficiale, che compensa la miseria dell’esistenza lavorativa. Ma – e qui Kracauer è dialettico – c’è anche un aspetto di verità in questo ornamento. La massa ornamentale rivela la verità del capitalismo, il fatto che gli individui sono ridotti a unità intercambiabili, che la società è governata da una razionalità astratta che non serve fini umani, che la vita è diventata spettacolo. Quindi, il cinema e la cultura di massa sono insieme ideologia (mascheramento, distrazione) e verità (rivelazione, sintomo). Non si può semplicemente dire “il cinema manipola le masse”, bisogna anche chiedersi: cosa rivela il cinema, anche involontariamente?
Per Kracauer, il cinema non è un’arte come le altre. È il medio artistico specifico della modernità capitalistica. Il cinema, infatti, è tecnologia, è macchina. Non c’è “tocco dell’artista”, “originalità irripetibile”, ogni copia del film è identica. Questo lo rende perfettamente adeguato a una società di massa, dove tutto è serializzato, standardizzato. Il cinema è fatto di immagini che si susseguono rapidamente, non c’è tempo per la contemplazione, il ritmo è quello della metropoli moderna, frenetico, frammentato, discontinuo, il montaggio – soprattutto quello sovietico (Ėjzenštejn, Vertov) – esalta questa frantumazione temporale. Il cinema rende visibile ciò che normalmente sfugge allo sguardo, può rallentare i movimenti (slow motion), ingrandire i dettagli (primo piano), rendere percepibili fenomeni altrimenti invisibili. Dziga Vertov parlava del “cine-occhio” (kino-glaz) come di un occhio superiore a quello umano, capace di penetrare la realtà. Kracauer riprende questa idea, il cinema ha una vocazione realistica, non nel senso di “riprodurre fedelmente la realtà”, ma nel senso di rivelare aspetti nascosti del reale, può mostrare la superficie del mondo in un modo che sfugge alla percezione quotidiana.
Un concetto chiave in Kracauer è la distinzione tra superficie e profondità. La modernità capitalistica produce un eccesso di superfici, vetrine, pubblicità, fotografie, schermi cinematografici. Tutto è visibile, tutto è messo in mostra. Ma questa iper-visibilità è anche un modo per nascondere la profondità, le relazioni sociali reali, lo sfruttamento, la miseria. Il compito del critico – e del cinema quando è consapevole di sé – è leggere le superfici. Non nel senso di denunciare che “nascondono qualcosa” (come farebbe un critico idealista), ma nel senso di mostrare che le superfici stesse sono sintomatiche. La superficie non nasconde la verità, è la verità, se la si sa leggere. Prendiamo le vetrine dei grandi magazzini berlinesi. Un critico tradizionale direbbe: “Le vetrine sono mera apparenza, ci distraggono dalla realtà dello sfruttamento lavorativo”, Kracauer invece dice: “Le vetrine rivelano la logica del capitalismo – mercificazione, feticismo della merce, estetizzazione del consumo. Non bisogna andare ‘dietro’ le vetrine, bisogna guardare come sono fatte.” Stesso discorso per il cinema: non bisogna chiedersi “cosa nasconde il cinema?”, ma “cosa rivela il cinema, anche involontariamente, nella sua stessa forma?”
In un saggio del 1926, Il culto della distrazione, Kracauer analizza le sale cinematografiche berlinesi e nota che sono progettate per massimizzare la distrazione, luci, decorazioni kitsch, intervalli musicali, proiezioni multiple. Non c’è nulla che favorisca la concentrazione, la contemplazione silenziosa come in un museo o in un teatro d’opera. La reazione spontanea della critica borghese è di condanna: “Il cinema corrompe il gusto, abbassa il livello culturale, produce masse acritiche”. Kracauer invece capovolge il giudizio, la distrazione non è necessariamente negativa. Anzi, può essere più onesta della falsa contemplazione borghese, perché la vita moderna è frammentata, discontinua, distratta. L’operaio che esce dalla fabbrica, l’impiegato che torna dall’ufficio, non hanno le energie psichiche per una “profonda esperienza estetica”, vogliono distrarsi, e hanno ragione. La contemplazione borghese dell’arte è un privilegio di classe, possibile solo per chi non è sfruttato dal lavoro alienato. Il cinema, offrendo distrazione organizzata, è adeguato alla condizione moderna, non finge che si possa ancora avere un rapporto “autentico” con l’arte, accetta la frantumazione e cerca di darle una forma.
Ma Kracauer non è ingenuo e riconosce che la distrazione può anche diventare strumento di controllo. Se le masse sono continuamente distratte – da film, varietà, sport, pubblicità – non hanno tempo né energie per pensare criticamente alla loro condizione, per organizzarsi politicamente. Qui emerge una tensione che attraversa tutto il pensiero di Kracauer, da un lato, la distrazione è legittima risposta alla frammentazione moderna, dall’altro, la distrazione può essere funzionale al dominio capitalistico. Non c’è una soluzione semplice. Kracauer non propone di “tornare” alla contemplazione pre-moderna (impossibile), ma suggerisce che la critica culturale debba analizzare le forme della distrazione, renderle consapevoli, mostrare cosa rivelano.
Tutto questo ci porta al cinema weimariano. La Repubblica di Weimar (1918-1933) è un periodo di crisi sociale, economica, politica, la Germania esce sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale, attraversa un’iperinflazione catastrofica, vive tensioni politiche fortissime tra comunisti, socialdemocratici, nazionalisti, nazisti. In questo contesto, il cinema tedesco degli anni ’20 diventa un laboratorio dove si sperimentano nuove forme estetiche, ma anche dove si rivelano le angosce, i desideri, le paure della società tedesca. Film come Il gabinetto del dottor Caligari, Nosferatu, Metropolis, M – Il mostro di Düsseldorf non sono solo capolavori artistici, sono sintomi di una società in crisi. Kracauer, scrivendo Da Caligari a Hitler negli anni ’40, si chiede se questi film avevano “premonito” l’avvento del nazismo, se avevano in qualche modo “preparato” psicologicamente le masse tedesche ad accettare un dittatore. La risposta di Kracauer è complessa e la svilupperemo nei prossimi articoli. Ma già qui possiamo anticipare che il cinema weimariano rivela una oscillazione continua tra due poli, un caos anarchico, paura della libertà, incapacità di autogoverno, desiderio di dissoluzione e un’autorità tirannica, fascinazione per il despota che “riporta l’ordine”, anche a costo della libertà. Questa oscillazione – tra caos e tiranno, tra Caligari e Hitler – sarà la chiave di lettura di tutto Da Caligari a Hitler.