La massa, l’ornamento e la razionalizzazione
Se nel capitolo precedente abbiamo esplorato il metodo con cui Kracauer tratta la fotografia, cioè come un sismografo della superficie fenomenica, è tempo ora di scendere più in profondità, là dove quella superficie viene fabbricata. Spostiamo lo sguardo sulla cultura di massa e sulle nuove, feroci forme di razionalizzazione che definiscono la modernità capitalista. Attraverso le pagine de Gli impiegati, quel reportage che è quasi un’anatomia della nuova classe berlinese, e le intuizioni profetiche de L’ornamento della massa, Kracauer non si limita a dialogare con Weber o ad anticipare le analisi della Scuola di Francoforte. Egli rielabora la “trascendenza senza dimora” di Lukács, mostrandoci come l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno venga sequestrata e messa a profitto dal sistema. La domanda che scotta ancora oggi è: in che modo il capitale è riuscito a organizzare non solo la produzione, ma il tempo libero, il divertimento e la soggettività stessa? In questo processo, media come il cinema e la fotografia non sono semplici svaghi, ma gli ingranaggi centrali di una gestione totale della nostra vita.
1. La nuova classe degli impiegati
Gli impiegati (Angestellten) emergono nel panorama del primo Novecento come una creatura sociale inedita e profondamente ambigua. Sospesi a mezz’aria, non sono né operai della catena di montaggio né borghesi proprietari; sono una “classe media” che abita la zona grigia della modernità. Dagli uffici alle banche, dai grandi magazzini alle assicurazioni, questi nuovi protagonisti gestiscono flussi invisibili di informazioni e documenti, diventando i cardini della razionalizzazione amministrativa. Ma Kracauer scorge qui un paradosso accecante: pur essendo di fatto “operai del colletto bianco”, schiacciati da compiti parcellizzati e controlli ossessivi, essi rifiutano la propria proletarizzazione e si cullano in una distinzione illusoria, nutrita da ambienti puliti e abiti curati, convinti che non sporcarsi le mani basti a salvarli dal destino della massa.
Il taylorismo smette di essere un protocollo da officina per farsi disciplina dell’anima. Kracauer descrive uffici che ricalcano la catena di montaggio, dove l’impiegato è ridotto a una funzione parziale, un timbro, una telefonata, un archivio, perdendo di vista il senso dell’intero processo. Ma la vera mutazione è antropologica: a differenza dell’operaio, all’impiegato è richiesto il lavoro emotivo. Non basta muovere la leva, bisogna sorridere; non basta essere efficienti, bisogna apparire devoti. Il capitale inizia qui a colonizzare l’interiorità, trasformando la fisionomia stessa del lavoratore in un ornamento rassicurante. È l’inizio di una pericolosa dissonanza emotiva: quando il volto diventa una maschera contrattuale, l’individuo rischia di smarrire il confine tra ciò che prova realmente e la performance che il sistema esige da lui.
Kracauer seziona l’ideologia degli impiegati con la spietatezza di un anatomista, inchiodandoli a una cronica falsa coscienza. Mentre si cullano nel sogno di un’ascesa individuale, tra manuali di auto-miglioramento e una cura maniacale dell’apparenza, essi occultano a se stessi la realtà della propria proletarizzazione. L’impiegato vive così un’alienazione al quadrato, essendo espropriato non solo del suo lavoro quanto l’operaio, ma anche della verità sulla propria condizione. Con questa figura patetica, il capitalismo rivela il suo volto più rapace: non si limita a produrre merci, ma fabbrica tipi umani. È qui che Kracauer anticipa la governamentalità di Foucault, il potere non si limita a reprimere, ma modella il desiderio. L’impiegato che sorride e governa se stesso per apparire motivato non sta solo obbedendo a un ordine, sta recitando la forma stessa della propria sottomissione.
2. L’ornamento della massa
Nel saggio L’ornamento della massa, Kracauer isola un dettaglio apparentemente frivolo per scoperchiare la logica del secolo, le Tiller Girls. Queste compagnie di ballerine non portano in scena la danza, ma la geometria. Non ci sono emozioni, non c’è narrazione; solo corpi che si incastrano in linee, stelle e cerchi con una precisione che definirei ossessiva per come azzera l’umano. Le ballerine sono ingranaggi di un corpo collettivo, atomi intercambiabili di un meccanismo dove l’individualità è un errore di sistema. Se una cade, un’altra subentra e il disegno resta intatto, mostrando che lo spettacolo non è più un’arte del sentimento, ma un’estetica della catena di montaggio trasferita sul palcoscenico.
L’ornamento delle Tiller Girls non cerca la bellezza nell’espressività, ma nella precisione chirurgica di una geometria applicata ai corpi. Trionfa così la coordinazione meccanica e il movimento viene parcellizzato in unità elementari, estirpando ogni residuo di spontaneità individuale. Siamo di fronte al Taylorismo che si fa spettacolo, alla catena di montaggio fordista che trasloca sul palcoscenico per farsi forma estetica. Ma Kracauer compie qui un salto teorico spiazzante, giacché non condanna questo fenomeno come una semplice mistificazione. Al contrario, vi scorge una forma paradossale di onestà. L’ornamento della massa è vero perché non mente e mostra il principio meccanico del capitale senza i belletti di un umanesimo di facciata o di nostalgie spiritualiste. È la verità nuda di un sistema che si esibisce per quello che è.
Nella massa ornamentale, i volti e le storie individuali si dissolvono e ciò che resta sono solo punti in un pattern, frammenti di un’astrazione realizzata. Kracauer vi scorge un doppio processo speculare: da un lato, la violenta riduzione dell’uomo a forza-lavoro astratta, tipica della produzione capitalistica; dall’altro, l’emergere di una bellezza nuova, fatta di pura forma e geometria collettiva. Ma è proprio qui che abita il paradosso supremo, dato che l’ornamento è al tempo stesso il sigillo dell’alienazione e la prefigurazione di una possibile libertà. Il problema, suggerisce Kracauer, non risiede nella razionalizzazione in sé, ma nel suo asservimento al profitto. Se gli esseri umani smettessero di essere organizzati dal capitale, potrebbero iniziare a organizzarsi deliberatamente, trasformando l’astrazione in un progetto di emancipazione collettiva.
Kracauer privilegia l’ornamento della massa alla cultura borghese tradizionale, abbarbicata a nozioni di individualità, espressione personale, interiorità spirituale, valori illusori nella società capitalistica moderna, in cui l’individuo è già dissolto dai processi economici reali. Dal momento che non fingono che esista ancora un’interiorità individuale da esprimere, le Tiller Girls sono più oneste della sinfonia romantica o del dramma borghese e mostrano senza infingimenti la verità della condizione moderna, l’essere gli individui già parti di processi collettivi impersonali. Se vedessimo però in Kracauer un celebrante acritico della cultura di massa, sbaglieremmo, dal momento che il suo messaggio è un altro: se vogliamo criticare la società moderna, dobbiamo partire dalle sue manifestazioni reali (la massa, l’ornamento, la razionalizzazione), non da fantasie nostalgiche di un’individualità che non esiste più.
3. Razionalizzazione e distrazione
Kracauer aveva capito che l’ombra della razionalizzazione si allunga ben oltre il turno di lavoro, che la razionalità del capitale non si accontenta delle ore di lavoro, vuole anche il nostro svago. Quella che chiamiamo libertà è, in realtà, un’appendice industriale del dovere, à pura distrazione organizzata. Cinema, varietà e sport di massa non sono altro che il rovescio della medaglia della scrivania, per cui, laddove il lavoro impone il silenzio dei sentimenti, il tempo libero offre lo stordimento dei nervi. Ma questa fame di stimoli, lungi dall’essere ribellione, è necessità bio-politica, pienamente funzionale al sistema. Il lavoratore consuma distrazioni per espellere le tossine della routine, chiudendo perfettamente il cerchio del capitale. Dal sistema non si fugge, anzi, ci si ripara in esso, quanto basta per poter ricominciare a produrre domani.
Per il Kracauer degli anni ’20-‘30, il cinema non è un semplice passatempo, ma il sismografo perfetto della modernità, il medium della distrazione suprema e, come tale, preferisce, al respiro lungo della letteratura o alla solennità del teatro, il bombardamento sensoriale, l’urto dei frammenti, la gratificazione istantanea. In questa frenesia, Kracauer scorge un’onestà brutale, dato che il cinema non cerca di vendere le belle bugie dell’arte borghese, quell’illusione di ordine e armonia ormai svanita, ma mette a nudo la verità del nostro tempo, un’esperienza fatta di schegge e di accelerazioni. Eppure, questa potenza resta un’arma a doppio taglio. Quando, troppo spesso, si piega alle logiche commerciali, il cinema smette di essere uno specchio per farsi anestetico, offrendo sogni prefabbricati e fughe immaginarie che, anziché illuminare la realtà, finiscono per nasconderla sotto un velo di rassicurante evasione.
Nella Berlino di Kracauer, la modernità indossa una maschera di vetro e neon e si manifesta come una superficie lucida, un caleidoscopio di vetrine magnetiche, di asfalto bagnato e di insegne che pulsano al ritmo febbrile del traffico. Tutto brilla, ma è un bagliore che acceca e inganna, perché, sotto questa vernice smagliante, ghignano con beffarda ironia lo sfruttamento e l’alienazione, ingranaggi di una razionalizzazione totale che ha condotto all’Obdachlosigkeit, la nostra trascendenza senza dimora, una condizione paradossale in cui lo spirito umano conserva ancora la fame di un senso assoluto (la trascendenza), ma ha perso per sempre il tetto rassicurante della tradizione e della fede (la dimora). La locuzione transzendentale Obdachlosigkeit compare infatti per la prima volta nel 1916 in Teoria del romanzo di György Lukács, di cui Kracauer (come anche Benjamin e Adorno) era attento lettore. Egli prende questo concetto e lo sposta dal piano puramente letterario a quello sociologico. Mentre il filosofo ungherese usa la trascendenza senza dimora per descrivere il passaggio dall’epica antica (dove l’uomo era a casa nel cosmo e nel mito) al romanzo moderno (dove l’individuo è solo, frammentato e privo di una totalità dotata di senso), Kracauer invece applica questa stessa angoscia alla vita quotidiana delle masse urbane. Per lui, l’impiegato che va al cinema o al dancing è l’incarnazione vivente di quella mancanza di dimora spirituale analizzata da Lukács nel romanzo. Ci ritroviamo così esuli in un mondo elettrico, dove il desiderio di infinito non trova più un luogo dove posarsi. Eppure, il critico non deve commettere l’errore di chiudere gli occhi o di rifugiarsi in nostalgie metafisiche ormai tramontate, anzi, il suo compito si fa più sottile, quasi da detective, deve abitare proprio quella superficie, decifrarne le crepe e i riflessi, per scorgere, nel cuore dell’apparenza, la fisionomia nuda e predatoria del capitale
4. Il rapporto con la Scuola di Francoforte
Kracauer respira la stessa aria della Scuola di Francoforte, legandosi ad Adorno in una fratellanza intellettuale fatta di sospetto verso la razionalità capitalista e l’industria culturale. Ma dove i due sguardi divergono, si apre una fessura cruciale. Se per Adorno la cultura di massa è una sentenza senza appello, un monolite di manipolazione dove l’arte autentica deve farsi fortezza inespugnabile per non soccombere, per Kracauer il giudizio resta sospeso, vibrante di ambivalenza. Egli non si limita a condannare il cinema o la fotografia come ingranaggi del dominio; vi scorge invece dei geroglifici della modernità. Per Kracauer, i fenomeni di massa sono una contraddizione vivente, mostrano il volto dell’alienazione, certo, ma proprio in quel volto, se lo si sa guardare, balena la rivelazione del sistema. La distrazione non è solo anestesia, ma un terreno di conoscenza dove la realtà, finalmente, si lascia decifrare.
Kracauer eredita da Max Weber la cronaca di un mondo disincantato, dove il calcolo e l’efficienza hanno sfrattato il mito e la magia. Ma non si ferma alla malinconia weberiana e, attraverso Marx, smaschera la neutralità di questo processo e denuncia che la razionalizzazione non è un destino astratto dell’Occidente, ma il braccio operativo del capitale. Non è la Ragione a trionfare, ma una logica del profitto che organizza l’esistenza come un ufficio contabile. La vera rivoluzione di Kracauer rispetto al marxismo ortodosso sta però nello sguardo. Egli sposta il fronte della lotta dalle fabbriche alle vetrine, dai rapporti di proprietà ai dettagli minimi della vita quotidiana. È qui, nell’infinitamente piccolo dell’esperienza vissuta, che Kracauer vede agire il capitale, anticipando con decenni d’anticipo le rotte del marxismo culturale
L’opera di Kracauer non resta confinata al suo tempo, ma agisce come un catalizzatore per le più importanti correnti del pensiero critico. È lui a fornire le prime lenti deformanti con cui la Scuola di Francoforte osserverà le macerie dell’industria culturale. È sempre lui a intuire, con decenni d’anticipo, che la cultura di massa è un terreno fertile e contraddittorio, un’idea che diventerà il cuore pulsante degli Studi Culturali anglosassoni. Se oggi leggiamo la città e i suoi rituali con gli occhi di Lefebvre o de Certeau, è perché Kracauer ha saputo vedere per primo la filosofia nascosta nei caffè e nelle sale cinematografiche. Questa eredità si chiude, idealmente, con la Teoria dei media. Da Benjamin a McLuhan, il debito verso Kracauer resta enorme, poiché è stato lui il primo a capire che il medium non è un semplice contenitore, ma la forma stessa della nostra esperienza moderna.
5. Applicazioni contemporanee
Quella folla solitaria di impiegati che Kracauer osservava tra le scrivanie di Berlino non era un’eccezione, ma l’anticipazione di un destino universale. Oggi, la società dei servizi è la profezia kracaueriana giunta a compimento, una distesa sterminata di lavoratori amministrativi e digitali dove la razionalizzazione non si è arrestata, ma si è fatta molecolare. Siamo nell’era del taylorismo digitale, dove il cronometro della fabbrica è stato sostituito da algoritmi di monitoraggio e obiettivi quantificati che non lasciano scampo. La falsa coscienza degli impiegati, però, non è svanita; ha solo cambiato abito. Se un tempo era l’illusione di una distinzione dal mondo operaio, oggi si nutre della retorica dell’imprenditorialità di sé e del capitale umano. Una semantica seducente che nasconde la realtà di sempre, l’identificazione totale con l’azienda e il sogno solipsistico di un’ascesa che resta, per i più, un miraggio, dell’individuo che diventa il sorvegliante di sé stesso, convinto che il proprio capitale umano sia una risorsa libera, mentre è solo l’ultimo stadio dell’alienazione. È il trionfo della retorica del capitale: convincere il lavoratore che la sua precarietà sia libertà e che la sua alienazione sia, in realtà, un investimento su sé stesso.
Le Tiller Girls non sono svanite, si sono smaterializzate. Oggi l’equivalente di quelle geometrie umane non vive solo nelle coreografie sincronizzate delle ola negli stadi, ma anche nelle architetture invisibili dei social media, nelle griglie millimetriche di Instagram, nei feed che scorrono infiniti, negli algoritmi che modellano i nostri desideri secondo schemi matematici. L’ornamento ha smesso di essere un evento eccezionale per farsi sostanza stessa dell’esperienza. Siamo diventati punti luminosi in un pattern algoritmico, ogni click, ogni like è un passo di danza in una coreografia globale che ci organizza senza che possiamo mai vederla interamente. La massa ornamentale si è fatta virtuale, ma il principio di Kracauer resta intatto e l’individuo scompare, ridotto a puro dato in una geometria rapace e perfettamente razionalizzata.
Quella distrazione che Kracauer isolava nelle sale cinematografiche è debordata ovunque, facendosi condizione permanente. Il confine tra il rigore del lavoro e l’evasione dello svago è andato in frantumi e oggi lavoriamo in uno stato di perenne frammentazione, tra multitasking e notifiche, e viviamo il tempo libero come un dovere performativo. I dispositivi digitali hanno perfezionato l’opera del capitale, industrializzando l’attenzione attraverso algoritmi che somministrano scariche di gratificazione intermittente, tanto che la stimolazione continua non è più un evento eccezionale, ma la struttura stessa del nostro quotidiano. Eppure, Kracauer ci insegna l’ambivalenza e ci vieta di rimpiangere una mitica concentrazione del passato, invitandoci a denunciare come questa frammentazione, che è la nostra verità moderna, sia stata sequestrata dal sistema per estrarre valore e colonizzare ogni nostro gesto.
6. Conclusioni: La superficie e la struttura
Il metodo di Kracauer è una forma di fisiognomica sociale: egli osserva la pelle del mondo, le mode effimere, il bagliore delle vetrine, le geometrie delle masse, per diagnosticarne il cuore segreto. Non commette l’errore di scavalcare la superficie in cerca di una profondità astratta; sa bene che la verità, spesso, è scritta proprio sulla scorza delle cose, rivelata involontariamente da un dettaglio architettonico o da un rituale di consumo. Questo sguardo è la nostra bussola nel caos contemporaneo. Invece di una denuncia generica e sterile contro la tecnologia, la lezione di Kracauer ci impone di sezionare il quotidiano, perciò dobbiamo imparare a leggere la grammatica degli open space, la coreografia dei rider della gig economy e le nevrosi racchiuse in un’interfaccia social. È nei sintomi della superficie che si nasconde la fisionomia rapace del capitale.
Kracauer non ci regala utopie preconfezionate né ricette rivoluzionarie. Egli sa bene che la razionalizzazione del capitale è una forza titanica, capace di colonizzare non solo il lavoro, ma i nostri affetti, i nostri corpi e il nostro tempo più intimo. Eppure, proprio in questa anatomia totale della sottomissione, si nasconde il seme della resistenza. Se Kracauer si ostina a mostrarci che tutto è razionalizzato, che ogni frammento della nostra vita è una costruzione sociale, è per ricordarci che nulla di tutto ciò è fatale. Se il mondo in cui abitiamo è un prodotto storico, allora può essere smantellato e ricostruito diversamente. La razionalizzazione non è un destino ineluttabile, ma un’architettura umana: e ciò che l’uomo ha edificato, l’uomo può trasformare.