Dopo aver tracciato la geografia dei primi due articoli, definendo il corpo senza organi, le macchine desideranti e le loro sintesi, è tempo di mettere in movimento questo apparato concettuale. Entriamo così nella parte propriamente storico-antropologica dell’ Anti-Edipo, quella che Deleuze e Guattari chiamano la loro “storia universale”. Ma non lasciamoci ingannare, non ci troviamo di fronte a una cronaca empirica dei fatti umani, bensì a una tipologia dei regimi di codificazione del desiderio. D&G non agiscono né come storici né come antropologi nel senso classico; essi costruiscono una macchina teorica per mappare il modo in cui le diverse formazioni sociali catturano, canalizzano e codificano i flussi desideranti. La loro analisi individua tre grandi architetture sociali, ciascuna definita da un modo specifico di trattare il desiderio: la macchina territoriale primitiva, dove il codice agisce direttamente; la macchina dispotica barbarica, che introduce la sovracodificazione dello Stato; e infine la macchina capitalistica civilizzata, regno della decodificazione e dell’assiomatica. Iniziamo questo viaggio soffermandoci sulla prima, la macchina territoriale primitiva.
È essenziale chiarire subito un punto, quando D&G parlano di “primitivo” o “selvaggio”, non stanno disegnando una piramide evoluzionistica che vede il moderno al vertice e l’antico alla base. Non siamo né dalle parti di Hegel né di Spencer. Questi termini sono usati in senso strettamente tecnico, come categorie analitiche per indicare formazioni sociali specifiche. Per D&G, “primitivo” definisce una società priva di Stato, una struttura in cui la codificazione avviene sulla terra, sul corpo e sulla parentela, senza mai invocare un apparato trascendente di sovracodificazione. “Selvaggio”, termine mutuato da Lévi-Strauss, indica invece quelle società “fredde” che resistono al cambiamento cumulativo e lavorano costantemente per riprodurre se stesse, opponendosi alla storia come forza esterna. Non è un giudizio di valore, ma la descrizione di un funzionamento.
Il concetto di codice è qui la chiave di volta. Se ricordiamo l’articolo precedente, il codice non è altro che un sistema di iscrizioni volto a catturare e canalizzare i flussi desideranti, impedendo loro di disperdersi nel caos. Il suo compito è ordinare il reale, stabilendo con precisione chirurgica le direzioni del desiderio: questo flusso è permesso, quell’altro è interdetto; questo spazio appartiene alla produzione, quest’altro al rito. Nelle società primitive, la peculiarità risiede nella vicinanza assoluta tra il segno e la materia. Qui il codice non fluttua nell’aria, ma si inscrive con forza su tre livelli fondamentali della realtà. Si inscrive anzitutto sul territorio, definendo chi può cacciare, chi ha il diritto di coltivare e quali sentieri rituali debbano essere calpestati per mantenere l’equilibrio del mondo. Si inscrive poi, in modo indelebile, sul corpo: tatuaggi, scarificazioni e iniziazioni non sono semplici decorazioni, ma marchi d’appartenenza che trasformano la carne viva in una scrittura sociale. Infine, si inscrive sulla filiazione, tracciando le linee di discendenza, l’appartenenza ai clan e la complessa scacchiera dei matrimoni possibili. L’aspetto cruciale è che in questa configurazione non esiste un’autorità centrale. Non c’è un sovrano o una burocrazia che impone il codice dall’alto; quello sarà il compito dello Stato, la macchina dispotica che vedremo più avanti. Nella macchina territoriale, il codice è totalmente immanente alle pratiche sociali stesse, vive nel gesto, nella pelle e nella terra, senza mai separarsi dalla vita quotidiana per diventare un apparato trascendente di comando.
In questo passaggio entriamo nel cuore dell’ontologia primitiva di D&G, il ribaltamento del concetto di proprietà in quello di appartenenza ontologica. Nella macchina territoriale, la terra non viene intesa come una risorsa economica da sfruttare, visione che presuppone già l’assiomatica del capitale, ma funziona come un vero e proprio corpo senza organi. Essa è la superficie di registrazione su cui si incidono le alleanze e le filiazioni, una “Grande Madre” mitica che funge da unità superiore e fonda l’appartenenza. Sebbene il codice rimanga immanente alle pratiche sociali (poiché non c’è ancora un sovrano separato), la terra appare come un’entità mitica che precede e avvolge ogni cosa. Per D&G, rifacendosi a una vasta letteratura etnografica, il territorio non è mai un semplice spazio geografico o il “luogo dove viviamo”. Prendendo ad esempio gli aborigeni australiani, il territorio appare come una trama fittissima di percorsi ancestrali, le cosiddette songlines, dove ogni anfratto e ogni sorgente è intessuta di miti e prescrizioni rituali. Sono tracce cantate che forniscono un orientamento spaziale dettagliato, guidano le persone attraverso il vasto paesaggio australiano e indicano la posizione di risorse vitali come l’acqua e il cibo, tramandando la storia della creazione, le leggi, le norme sociali, le storie familiari e la conoscenza ecologica per migliaia di anni. In questa configurazione, ogni punto dello spazio è saturo di codice. Il paradosso, rispetto alla nostra sensibilità moderna, è totale, non è infatti il clan a possedere la terra, ma è il clan che appartiene alla terra, scorrendo sulla sua superficie come un’estensione della sua stessa sostanza mitica.
In questo paragrafo, entriamo nella “meccanica” del desiderio applicata alla parentela. D&G prendono le categorie classiche di Claude Lévi-Strauss e le trasformano in veri e propri processi di ingegneria libidica. L’antropologo francese aveva individuato due assi fondamentali, la Filiazione, ovvero la linea verticale che connette padri e figli, antenati e discendenti; e l’Alleanza, la linea orizzontale del matrimonio e dello scambio tra clan diversi. D&G riprendono questa distinzione ma la leggono attraverso la lente delle macchine desideranti, dove ogni legame diventa un’operazione di codifica. La filiazione non è più solo una questione di sangue, ma la codificazione dell’energia libidica attraverso la discendenza. Qui il corpo del figlio diventa una pergamena su cui la società scrive attraverso i riti di iniziazione e le prove dolorose, che sono, come vedremo più avanti citando Nietzsche, vere operazioni di iscrizione. Il codice sociale viene inciso nella carne affinché il soggetto non possa mai dimenticare la linea a cui appartiene. Parallelamente, l’Alleanza opera come una cattura del flusso desiderante attraverso lo scambio. In questo regime, il matrimonio è spogliato di ogni “sentimento romantico” individuale per rivelarsi come una transazione politica ed economica tra gruppi. Seguendo l’intuizione di Lévi-Strauss sulla circolazione delle donne come valore di scambio, D&G mostrano come il desiderio venga regolato trasformandolo in un flusso controllato di alleanze, una rete che tiene uniti i diversi clan attraverso il debito e il dono.
Entriamo in uno dei passaggi più vertiginosi dell’intera opera: la scoperta che la società primitiva non si fonda sul baratto, ma sul debito. D&G operano qui una rottura radicale con l’economia classica, svelando come nelle comunità selvagge si instauri un sistema di debito infinito. Ma cosa significa, tecnicamente, essere in debito in una macchina territoriale? Significa che ogni membro della comunità è strutturalmente legato agli antenati, alla terra e al clan da un’obbligazione che precede la sua stessa nascita. Il debito non è un incidente di percorso, ma l’essenza stessa dell’appartenenza. “Tu esisti perché gli antenati ti hanno generato; tu mangi perché la terra ti nutre; tu sei protetto perché il clan ti accoglie.” In questo quadro, l’individuo nasce insolvente, la vita gli è stata data, e poiché la vita non ha prezzo, il debito non può mai essere saldato. Questo sbilancio perenne viene parzialmente “gestito” attraverso una serie di flussi regolati, i riti e i sacrifici, la sottomissione alle leggi ferree del gruppo, la trasmissione della vita stessa attraverso la generazione di nuovi figli e il rispetto rigoroso delle interdizioni. Eppure, per quanto il soggetto si sforzi di pagare, rimane sempre un resto, un surplus di debito che non si estingue mai. È quel “surplus di codice” che, diversamente dal plusvalore capitalista che vedremo tra poco, serve qui a legare l’individuo alla comunità e impedisce ai flussi del desiderio di fuggire. In questa dinamica scorgiamo un’anticipazione profetica del capitalismo, che pure sulla colpa e sul debito costruisce il suo intero impero finanziario. Ma attenzione: come vedremo proseguendo nell’analisi, la natura del debito nel capitale sarà radicalmente diversa da quella che tiene unite le tribù selvagge; là dove il primitivo è legato alla terra, l’uomo moderno sarà incatenato a un’assiomatica astratta.
In questo passaggio, D&G avanzano una tesi che può apparire spietata, ma che rappresenta la chiave di volta della loro analisi, la codificazione del desiderio passa necessariamente attraverso la crudeltà. I riti di iniziazione, le prove fisiche estenuanti, le mutilazioni e le scarificazioni non devono essere interpretati come residui di una “barbarie” da cui il progresso ci avrebbe finalmente liberati. Al contrario, esse rappresentano la forma pura della codificazione sociale. D&G richiamano qui il secondo saggio della Genealogia della morale di Nietzsche: “Si brucia qualcosa affinché resti nella memoria”. La memoria collettiva non si edifica con dolci filastrocche, ma si incide con segni indelebili direttamente sulla carne. Come abbiamo accennato a proposito della filiazione, il codice deve essere incorporato e non semplicemente appreso. Il corpo deve trasformarsi in una superficie di iscrizione, una pergamena viva su cui la legge scrive i propri decreti affinché diventino istinto e appartenenza. È fondamentale però non cadere in un equivoco moralistico, questo non significa affatto che le società primitive siano “portatrici di una violenza gratuita”, anzi, D&G suggeriscono spesso il contrario. La differenza risiede nella natura di questa forza: nella macchina territoriale la violenza è ritualizzata, circoscritta e funzionale; è una tecnica di scrittura che permette al sistema di riprodursi, evitando che i flussi desideranti si disperdano nell’anomia.
In questo passaggio, entriamo nel vivo del funzionamento “preventivo” della macchina territoriale. Per D&G, questa architettura sociale ha un obiettivo esistenziale, impedire con ogni mezzo che i flussi sfuggano al codice, poiché ogni deriva rappresenterebbe una minaccia mortale per la stabilità del gruppo. Possiamo osservare questa disciplina all’opera in tre ambiti concreti. Anzitutto nel flusso di donne. Nelle società primitive il matrimonio non è mai una scelta individuale, ma una procedura rigidamente codificata. Si deve sposare qualcuno appartenente alla categoria prescritta, come la figlia del fratello della madre in certi sistemi matrilineari, perché se il desiderio sessuale scorresse liberamente, l’intera rete di alleanze e obbligazioni tra i clan collasserebbe all’istante. Allo stesso modo viene regolato il flusso di beni. Seguendo le analisi di Mauss, D&G chiariscono che lo scambio di doni non è una forma rudimentale di economia, ma un sofisticato sistema di obbligazioni reciproche. Pratiche come il potlatch, ovvero la distruzione cerimoniale di ricchezza, servono proprio a impedire l’accumulo privato. Questo surplus di produzione, che nel capitalismo diventerà motore di profitto, qui deve essere bruciato o dissipato invece che capitalizzato, perché l’accumulo produrrebbe inevitabilmente disparità di potere capaci di far esplodere il codice sociale. Infine, anche il flusso di violenza è sottoposto a una ferrea canalizzazione. La vendetta non è un impulso caotico, ma una procedura codificata secondo tariffe e rituali precisi, come l’occhio per occhio. Questa regolamentazione impedisce l’escalation illimitata della forza, evitando che la comunità si autodistrugga in una guerra totale. Il codice, in sostanza, agisce come una diga, canalizza la violenza e la ricchezza affinché rimangano entro argini funzionali alla riproduzione del sistema.
D&G operano uno spostamento teorico decisivo, rovesciando la visione tradizionale del rapporto tra individuo e collettività. È fondamentale comprendere che per loro non esiste un desiderio “puro” o privato che viene solo in un secondo momento castrato o limitato dalla società. Al contrario, il desiderio è fin dal principio interamente investito nel campo sociale secondo le coordinate del codice territoriale. Non c’è una repressione che interviene ex post su una libido pre-sociale; esiste, fin dall’origine, un investimento libidinale del socius. Il “selvaggio” non desidera nel vuoto, egli desidera la propria terra, desidera la propria posizione all’interno del clan, desidera l’osservanza, o persino la trasgressione, delle leggi ancestrali che danno senso alla sua esistenza. L’inconscio, dunque, non è un teatro privato dove si consumano drammi familiari, ma è già intrinsecamente sociale e territoriale. In questa architettura non c’è spazio per un “inconscio edipico” nascosto sotto la superficie; l’Edipo, con la sua triangolazione ristretta (papà-mamma-io), non è una costante antropologica, ma un prodotto che vedremo emergere solo più tardi, con l’avvento di formazioni sociali radicalmente diverse.
In questo passaggio finale sulla macchina territoriale, D&G evidenziano la differenza radicale tra un sistema che vive nel rito e uno che si piega al comando. Il codice primitivo è rigorosamente immanente, non esiste alcuna istanza esterna o superiore che lo imponga con la forza della legge scritta. Anche gli anziani, figure di saggezza e memoria, non sono i creatori del codice, ma i suoi semplici trasmettitori; le regole esistono “da sempre”, tramandate dagli antenati mitici come una verità che non richiede giustificazioni esterne. La grande rottura avviene con la nascita dello Stato, tema che approfondiremo nel prossimo articolo, che introduce invece la trascendenza. Qui compare la figura del Despota, di colui che si pone al di sopra del corpo sociale e proclama: “Io sono la Legge”. Con questo atto, il codice smette di essere una pratica vissuta per trasformarsi in un comando sovrano che piove dall’alto. Un’altra distinzione fondamentale riguarda l’estensione del potere. La macchina territoriale ammette, e anzi richiede, una molteplicità di codici, ogni clan segue le proprie regole, ogni tribù onora i propri totem in un mosaico di diversità che non distrugge l’equilibrio generale. Non esiste un codice universale. Al contrario, lo Stato agisce come un immenso apparato di unificazione, il suo obiettivo è stendere un velo omogeneo su tutto il territorio imperiale, imponendo il dogma di “una legge, una lingua, un sovrano”. Dove c’era la varietà del rito, ora sorge l’uniformità del decreto.
Come avviene, dunque, il passaggio dalla macchina territoriale alla macchina dispotica, dal rito al comando, dalla terra al trono? D&G riconoscono in questo interrogativo una delle sfide più ardue dell’antropologia politica. La loro ipotesi, che approfondiremo nel prossimo articolo, è dirompente: lo Stato non è l’esito naturale di una crescita organica delle società primitive. Al contrario, esso appare come una formazione esterna, un apparato che si abbatte sulla macchina territoriale per “sovracodificarla”. Eppure, tra le pieghe delle società selvagge, esistono già dei segnali, delle figure che prefigurano l’ombra dello Stato, come il capo, che pur privo di potere coercitivo incarna un’autorità potenziale o lo stregone, con il suo legame privilegiato con l’invisibile e il guerriero, la cui forza potrebbe in ogni momento deviare verso l’imposizione violenta. A questo proposito, D&G accolgono la tesi provocatoria di Pierre Clastres: le società primitive sono società contro lo Stato. Ogni loro ingranaggio, dal debito infinito alla distruzione rituale del surplus, fino alla sistematica limitazione del prestigio del capo, è un dispositivo progettato per scongiurare l’emergere di un’autorità centralizzata. In quest’ottica, la macchina territoriale si rivela essere una sofisticata tecnologia anti-Stato. Per questa ragione, lo Stato non potrà mai nascere “da dentro”, dovrà imporsi dall’esterno come una forza di cattura che spezza le vecchie dighe per instaurare un nuovo, assoluto regime di sovranità.
Abbiamo accennato alla tecnologia della memoria in Nietzsche: per D&G, la società primitiva è una vera e propria macchina da scrivere dove il corpo è la superficie di iscrizione. Il rito di iniziazione è un’operazione di scrittura letterale, il codice viene tatuato, inciso e scarificato sulla pelle. Il corpo si trasforma così in un testo vivente, una pergamena su cui chiunque può leggere l’appartenenza al clan, la posizione gerarchica e l’intera storia iniziatica del soggetto. Questa intuizione trova il suo riflesso ne La colonia penale di Kafka, dove la macchina che scrive la sentenza sulla carne diventa la metafora estrema di questo processo, secondo il quale la legge non è un concetto astratto, ma una forza fisica.
Perché tanta insistenza sulla crudeltà? La risposta di D&G è netta, perché il corpo deve essere territorializzato, fissato e, soprattutto, gli deve essere impedito di scappare. Il corpo pulsionale, nella sua condizione naturale, è un flusso incessante che tende a disperdersi, a seguire linee di fuga impreviste e a deterritorializzarsi costantemente. La codificazione interviene come un dispositivo di blocco, essa arresta questo movimento, fissa la carne e la iscrive per sempre entro un territorio simbolico invalicabile. L’iscrizione sulla pelle è un verdetto ontologico che non ammette repliche: “Tu appartieni a questo clan, a questo totem, a questa linea di discendenza. Tutto ciò è scritto indelebilmente sul tuo corpo e tu non puoi essere altro”. In questo contesto, il dolore del rito non è un incidente, ma il cuore stesso del processo. Il suo scopo è rendere impossibile l’oblio, trasformando il codice in qualcosa di talmente viscerale da non poter essere né cancellato né dimenticato. La crudeltà è la tecnica che trasforma un animale libero in un membro sociale, ancorando la sua identità al suolo e alla storia del gruppo attraverso la memoria del supplizio.
Nelle società primitive, nonostante lo sforzo titanico della codificazione, permane comunque costantemente un resto, un surplus che eccede i confini del codice. Lo osserviamo anzitutto nella produzione, dove si genera regolarmente più di quanto sia strettamente necessario alla sopravvivenza. Tuttavia, questo eccedente non viene mai accumulato privatamente; esso viene neutralizzato attraverso la distruzione rituale nel potlatch, redistribuito in feste comunitarie o offerto simbolicamente agli antenati. Lo stesso accade con la violenza, c’è sempre chi trasgredisce e uccide al di fuori delle norme, ma la vendetta codificata interviene per reintegrare questo scarto di forza nel sistema. Persino il desiderio che “sbaglia”, chi ambisce alla donna proibita o rifiuta il rito, viene riassorbito attraverso sanzioni ed espiazioni che permettono al trasgressore di essere nuovamente accolto. Il resto, dunque, non viene eliminato, ma compensato e ricondotto all’equilibrio del gruppo. Qui D&G introducono un’anticipazione fondamentale. Nel capitalismo, il destino del surplus cambia radicalmente. Esso non viene più distrutto né redistribuito per mantenere la stabilità, ma viene accumulato sotto forma di capitale. È questo il punto di rottura che cambia tutto. Il capitalismo si rivela come la prima formazione sociale che non solo tollera il surplus, ma lo esige sistematicamente. Il plusvalore di Marx cessa di essere un “resto” da compensare per diventare il motore pulsante dell’intero sistema. È il passaggio dalla società che teme l’eccesso a quella che ne fa la propria ragione di esistenza.
È questo uno dei grandi cavalli di battaglia di D&G contro la tradizione psicoanalitica, l’idea che il desiderio sia un fatto privato. Per Freud, la scena è sempre la stessa, prima esiste un desiderio individuale fatto di pulsioni e fantasmi segreti, e solo in un secondo momento interviene la società per reprimere o sublimare questa energia. D&G ribaltano completamente questa prospettiva. Fin dal principio, sostengono, il desiderio investe direttamente il campo sociale. Il “selvaggio” non desidera nel vuoto di una stanza d’analisi, egli desidera la propria terra, il proprio totem e la propria posizione all’interno del sistema delle alleanze. Non esiste un “desiderio naturale” che viene socializzato a forza; esiste, fin dal primo respiro, un investimento libidinale del socius. Se il desiderio investe immediatamente il campo sociale, ne consegue che l’inconscio non può più essere considerato uno spazio “privato”. Esso è, per sua natura, politico, economico e collettivo. Nelle società primitive, l’inconscio è rigorosamente territoriale, è fatto di percorsi ancestrali, di miti di fondazione e di scacchiere matrimoniali. Non c’è traccia di un “inconscio edipico” universale che agiti le notti dei primitivi. L’Edipo, con il suo dramma chiuso tra papà, mamma e io, non è una costante della natura umana, ma una produzione storica specifica. Esso emergerà solo più tardi, con il consolidarsi della famiglia borghese sotto il regime capitalista, trasformando quello che era un flusso politico in un piccolo affare domestico.
Il freudo-marxismo di autori come Reich e Marcuse aveva tentato una sintesi suggestiva. Se il capitalismo reprime i desideri, allora la rivoluzione deve consistere nel liberarli. Ma per D&G la questione è decisamente più sottile. Il capitalismo non si limita a “reprimere” passivamente una libido preesistente; esso produce attivamente forme specifiche di desiderio. Il vero nodo teorico non è dunque la “liberazione” astratta del desiderio, quanto la comprensione del modo in cui esso investe e sostiene le strutture di potere. Ci troveremo presto di fronte a uno dei dilemi più controversi dell’opera, il capitalismo libera i flussi per poi incatenarli, o è esso stesso un motore di liberazione selvaggia? Per comprendere questo passaggio, dobbiamo guardare al declino della macchina territoriale. Essa funziona e prospera finché si mantengono tre condizioni d’equilibrio, le comunità restano piccole e isolate, non vi è un accumulo significativo di surplus e non emergono disparità di potere interno. Ma l’equilibrio è fragile. Cosa accade quando la pressione demografica aumenta? Cosa succede quando nuove tecniche agricole permettono la formazione di eccedenze consistenti o quando figure come il guerriero e il sacerdote iniziano a concentrare su di sé un’autorità inedita? In quel momento, la macchina territoriale entra in una crisi irreversibile. Le vecchie dighe del codice non bastano più a contenere la nuova massa di flussi e di potere. È in questa crepa, in questo spazio di instabilità, che si prepara l’avvento dello Stato, la macchina dispotica pronta a piombare sulla terra per sovracodificare ciò che il clan non riesce più a trattenere. Nel prossimo articolo vedremo come lo Stato si abbatte sulla macchina territoriale e la trasforma radicalmente. Lo Stato non “evolve” dalle società primitive, arriva come una formazione esterna che cattura i flussi territoriali e li sovracodifica. Il Despota, il Faraone, l’Imperatore, figure che si pongono al di sopra del codice territoriale, che dicono “Io sono la Legge incarnata”. E qui si apre un nuovo regime del desiderio.
Sulla soglia del collasso della macchina territoriale, il dibattito si infiamma. Slavoj Žižek, dalla sua trincea lacaniana, concede a D&G la ragione storica, l’Edipo non è un universale. Tuttavia, lo sloveno intravede un errore fatale nell’idea che basti decodificare o liberare i flussi per risolvere il problema del potere. Per Žižek, esiste sempre un Reale che resiste a ogni tentativo di simbolizzazione. Quel “debito infinito” che abbiamo analizzato sopra non è solo un legame sociale, ma il segno di un nucleo di godimento traumatico e impossibile da integrare completamente. La Legge cerca di codificare questo Reale, ma fallisce inevitabilmente, ciò che avanza non è “energia vitale” pronta per essere liberata, ma un resto ingovernabile che nessuna rivoluzione del desiderio potrà mai riassorbire. Sul fronte opposto si staglia la figura d’ombra di Nick Land, il padre dell’accelerazionismo. Land accoglie la tesi di D&G secondo cui il capitalismo è la macchina suprema di decodificazione, ma li accusa di codardia intellettuale. Secondo Land, D&G hanno avuto paura di guardare nell’abisso che loro stessi hanno spalancato: se la macchina territoriale codifica e lo Stato sovracodifica, allora il compito del capitalismo è distruggere ogni codice residuo. Land radicalizza D&G contro D&G stessi: non bisogna cercare di salvare brandelli di umanità o “riterritorializzarsi” in nuovi ritornelli protettivi. Al contrario, bisogna accelerare il processo, spingere la decodificazione fino al suo limite estremo, lasciando che il capitalismo polverizzi ogni struttura sociale fino all’uscita definitiva dall’umano.
Per riassumere questo viaggio nell’antropologia di D&G, ecco i punti cardine da portare con noi. La macchina territoriale è il primo grande regime di codifica del desiderio. Nulla è lasciato al caso, il desiderio è incanalato, mappato e reso sociale. Il codice non si impara sui libri, si inscrive sulla carne. Attraverso la crudeltà rituale, la società trasforma il corpo in una pergamena che testimonia alleanze e filiazioni. Il sistema di parentela non serve a “unire le persone”, ma a catturare i flussi desideranti (sessuali, economici, di violenza) per impedire che scappino verso l’ignoto. L’individuo nasce insolvente verso la Terra e gli antenati e questo debito perenne è il collante che crea la memoria sociale e garantisce l’appartenenza. L’inconscio non è un segreto di famiglia (Edipo), ma una mappa del territorio, è fatto di totem, miti e alleanze; è immediatamente economico e collettivo. Esiste sempre un surplus, ma la macchina primitiva è maestra nel riassorbirlo, dissiparlo o bruciarlo per mantenere l’equilibrio. Finché siamo sulla Terra, il codice è orizzontale e diffuso. Con lo Stato, vedremo apparire una verticale che spacca il cielo: la trascendenza del Despota.
Nel prossimo articolo varcheremo la soglia della macchina dispotica barbarica. Vedremo come lo Stato si abbatte sulla terra, come nasce l’idea di proprietà e come quel debito infinito, da rito vissuto, si trasforma in sottomissione al sovrano. Anche se sembra archeologia, è in realtà la radiografia del nostro presente.