La condanna dell’arte nel X libro della Repubblica (3a parte)
La distanza dalla verità dell’imitazione artistica
Anche l’imitatore, nel suo campo, è ἐπιστάτης (epistates), cioè presiede e domina un modo in cui l’idea viene portata ad apparire. Ma il dipinto è una terza produzione, contando dal puro essere autoschiudentesi dell’idea, considerata la prima.
Idea > Oggetto > Immagine
Nel tavolo e nella sedia dipinti si mostrano “in qualche modo” il tavolo e la sedia ideale, e si mostra anche “in qualche modo” la struttura materiale dell’oggetto, quindi anche la cosa fatta dall’artigiano. Ma sia la sedia ideale sia la sedia reale si mostrano in un altro elemento, quindi in una terza cosa. Perciò il modo in cui il pittore produce il tavolo nel sensibile si allontana dall’idea, cioè dall’essere dell’ente, ancora di più della produzione del tavolo da parte del falegname. È proprio questo allontanamento dall’essere e dalla sua pura visibilità che costituisce l’essenza della mimesis artistica.
Ogni imitazione è, per propria essenza, un produrre subordinato, determinato nel proprio valore dalla posizione gerarchica occupata dal prodotto, cioè dalla sua distanza dal modello.
(il pittore) ti sembra che egli cerchi di imitare il singolo oggetto in sé che è nella natura, oppure le opere degli artigiani? […] E le imita quali sono o quali appaiono? Fa’ ancora questa distinzione. […] Un letto, che tu lo guardi di lato o di fronte o in un modo qualsiasi, differisce forse da se stesso? O non c’è nessuna differenza, anche se appare diverso? E analogamente anche gli altri oggetti? (Rep. 598 a)
Ed ecco la decisiva domanda socratica:
a quale di questi due fini è conformata l’arte pittorica per ciascun oggetto? A imitare ciò che è così come è, o a imitare ciò che appare, così come appare? È imitazione di apparenza o di verità? (Rep. 598 b)
La distanza dalla verità e l’inadeguatezza della tecnica mimetica del pittore si vede, ad esempio, nel modo in cui l’idea “appare” nelle sue opere. Mentre il tavolo reale presenta, a seconda dei lati, diverse vedute, le quali, tuttavia, non intaccano l’identità del tavolo, i molteplici aspetti con cui si dà non ne compromettono l’identità, il pittore, invece, può prendere di mira il tavolo sempre e solo da una certa posizione e quello che produce è sempre e soltanto una veduta, perciò, non solo non produce un tavolo utilizzabile, ma lo fa anche in maniera incompleta.
– Allora l’arte imitativa è lungi dal vero e, come sembra, per questo eseguisce ogni cosa, per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun oggetto, una parte che è una copia. (Rep. 598 b)
L’arte è, nella concezione di Platone, l’apoteosi del punto di vista e dell’illusionismo sensibile. L’idea di letto può essere colta con un atto intelligibile unico, mentre il letto reale non può essere visto con uno sguardo panoramico. Tuttavia posso muovermi attorno a un letto reale, posso vederlo dall’alto, dal basso, da ogni punto di vista, perciò, anche se in momenti successivi, posso ricostruirne interamente l’aspetto. Il punto di vista, pur ineliminabile dalla percezione, può essere “totalizzato” e l’eidos, anche se frammentato in una molteplicità di viste particolari, può essere correttamente rappresentato. Non così per il letto dipinto, che rimane fissato in quell’unica vista in cui il pittore l’ha colto, vista che pretende di spacciarsi per vera, mentre altro non è che una piccola parte dell’oggetto, un idoletto (touto eidolon), un’unica e immodificabile prospettiva.
E allora ecco il duplice tradimento dell’arte: non solo tradisce, nel senso di consegnare e abbandonare, l’idea in una materia inadeguata a rappresentarla (il colore che “pretende” di sostituirsi al legno nel rappresentare il letto), ma anche la tradisce nell’irriscattabile particolarità del punto di vista in cui la confina. Se il letto reale, perciò, è testimonianza, sia pure precaria, nel mondo sensibile del letto ideale, il letto dipinto ne è inequivocabilmente il tradimento, tradimento tanto più riuscito quanto meglio contraffatto è il letto ideale.
L’operazione artistica, insomma, si svolge tutta nell’ambito della mistificazione. L’artista, pittore, scultore, ma anche tragediografo, poeta, è un turlupinatore, che vuol far credere di conoscere tutto e di essere capace di fare ogni cosa. Non è difficile riconoscere in questa descrizione l’ingannatore ed il simulatore per antonomasia, il sofista.
S – Se fosse un buon pittore, dipingendo un falegname e facendolo vedere da lontano, potrebbe turlupinare bambini e gente sciocca, illudendoli che si tratti di un vero falegname. […] E allora, quando uno venga ad annunciarci di aver incontrato un uomo che conosce tutti i mestieri e ogni altra nozione, propria dei singoli specialisti, e tutto conosce più esattamente di chiunque altro, a tale persona dovremo replicare che è un sempliciotto e che con ogni probabilità ha incontrato un ciarlatano, un imitatore, da cui è stato turlupinato. (Rep. 598 b-c)
L’insanabile dissidio arte – filosofia
L’arte non è al servizio del vero come l’artigianato, l’arte accampa la pretesa al vero. Il letto reale è legittimato, perché costruito a immagine e somiglianza del letto ideale e la sua presenza nel mondo, quindi, è un indiretto omaggio al modello trascendente. Il letto dipinto, invece, è un’immagine contraffatta, un’immagine simulata e senza somiglianza del modello ideale, un’immagine che non “restituisce” il modello, bensì lo “destituisce”, prefigurando in tal modo un mondo senza trascendenza.
Il conflitto arte-filosofia, giocato e risolto sul terreno ontologico, prima ancora che gnoseologico, è guidato, nella sua istanza di fondo, da un’opzione morale e trascendente.
– L’identica grandezza, secondo che si vede da vicino o da lontano, non ci appare uguale. E gli identici oggetti, a seconda che si contemplano dentro o fuori dell’acqua, appaiono piegati o diritti, e cavi o prominenti. Questo perché nella vista si produce un disorientamento cromatico. È chiaro che tutto questo scompiglio esiste nell’anima nostra. Ora, facendo leva su questa condizione della nostra natura, la pittura a chiaroscuro non tralascia alcuna stregoneria. E così fanno la prestidigitazione ed altri trucchi del genere. (Rep. 602 c-d)
La nostra percezione ci fa vedere le cose diverse da come sono, ci inganna. Solo la filosofia, la conoscenza razionale, ci svela la reale natura delle cose, mentre gli artigiani, che producono cose necessarie alla vita degli uomini, si conformano docilmente al rispetto dell’eidos. Cosa fa, invece, l’arte, come risponde a quello “scompiglio che esiste nell’anima nostra”, scompiglio dovuto alla non corrispondenza fra ciò che concepiamo e ciò che è? Risponde assecondando la nostra natura irrazionale, trascurando volutamente misurazione, numerazione, pesatura, tutto ciò che possiamo chiamare indagine o ricognizione razionale dell’ente, quell’indagine che ci assicura che, al di là delle apparenze, sta comunque salda l’identità dell’oggetto. Trascura proprio quell’elemento che giudica secondo misura, cioè l’anima razionale, mentre ne esalta la parte irrazionale.
Ed allora Socrate pronuncia la sua definitiva condanna, sia ontologica sia morale.
– La pittura (e, in genere, l’arte imitativa) elabora la propria opera lontano dalla verità. (Rep. 603 a)
– Essa è in intima relazione, compagna e amica di quel nostro interiore elemento che sta lontano dall’intelligenza, e senza alcuna meta sana né vera. (Rep. 603 b)
L’arte produce simulacri, irriscattabili, irredimibili, eversivi, rovescia i modelli e ne mette in discussione legittimità ed esistenza. Il simulacro artistico si pone in diretto antagonismo con il modello, simulacro che, prima di essere falso, è soprattutto pericoloso, perché pretende di vigere in assenza del modello. Non è, tuttavia, un antagonismo semplice e speculare, dal momento che il simulacro non pretende di vigere al posto del modello, non si propone a sua volta come modello. Il simulacro destituisce il modello come identità e vanifica la sua azione fondamentale, quella di imporre una violenta e autoritaria riconduzione moralistica del divenire sensibile all’essere intelligibile. Il simulacro, insomma, destituisce l’identità e istituisce la differenza.
Il mondo platonico nasce dalla cacciata dei simulacri, dalla loro esclusione. La sua essenza non consiste tanto nella divisione fra intelligibile e sensibile, fra mondo delle idee e mondo empirico, quanto nell’addomesticamento del sensibile, nella sua ri(con)duzione alla ragione. In questo senso il platonismo è la risposta del più grande dei filosofi al più grande dei problemi, il problema del sensibile. La filosofia platonica prefigura un mondo “di frontiera”, dove l’addomesticamento non è mai davvero riuscito, dove la battaglia è sempre in corso. Un mondo in cui l’arte e i suoi simulacri non sono ancora stati ridotti, non lo possono essere, a quell’apprezzata “funzione” di rappresentare il verosimile, come sarà per Aristotele, il cui mondo avrà dei connotati molto diversi da quello platonico. In un mondo come quello platonico il simulacro artistico non può nemmeno essere “salvato” in quanto rappresentazione privilegiata dell’idea, come avverrà con Plotino e il neoplatonismo, perché il sensibile nel mondo platonico vige ancora in tutta la sua originaria potenza e non può essere ricondotto a un momento, magari infimo, ma comunque comprensibile, della catena emanativa dell’essere.