Analisi dell’Etica di Spinoza. Introduzione

Inizia con questo articolo un’analisi puntuale e dettagliata dell’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza.

L’Etica si compone di cinque parti: I – De Deo (Dio), II – De Natura et Origine Mentis (La natura e l’origine della Mente), III – De Origine et Natura Affectuum (L’origine e la natura degli affetti), IV – De Servitute Humana seu de Affectuum Viribus (La servitù umana ossia la forza degli affetti), V – De Potentia Intellectus seu de Libertate Humana (La potenza dell’intelletto ossia la libertà umana).

Non c’è, a mio avviso, migliore viatico per avvicinarsi a tale testo che leggere le bellissime parole di Giorgio Colli.

L’Etica richiede lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di quello che ci si può attendere ragionevolmente da un libro: svela l’enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare.

Ogni filosofo vuol trovare un senso – ossia un’unità – del mondo; ma gli oggetti che deve considerare sono infiniti, e i nessi concettuali che deve stabilire tra di essi sono, se possibile, ancora più infiniti. Il vigore di un filosofo è misurato dall’ampiezza di questa rete, che egli getta sulle cose, tentando di afferrarle e di stringerle. Ma ciò che conta ugualmente, è la qualità del tessuto di questa rete. La bava del ragno deve essere rilucente e uniforme, e tenue abbastanza da ingannare la preda. È la forza dello sguardo, che stabilisce questa unità, lucida e avvolgente. Per profondità di un filosofo, si intende appunto ciò, e, dopo i greci, nessun filosofo è stato profondo nella misura di Spinoza. Chi si accinge a leggere l’Etica, si trova anzitutto di fronte a difficoltà grandissime: le definizioni, gli assiomi, le proposizioni, gli scolii, si presentano come bastioni inespugnabili, quasi isolati e ostili gli uni agli altri. Ma approfondendo l’indagine, cioè scendendo nei cunicoli sotterranei di ciascun bastione, si scoprono i collegamenti. Per inoltrarsi nel buio di quelle gallerie, occorre possedere un cuore fermo, e un occhio notturno. I contrasti tra i pensieri spinoziani vanno attenuandosi, man mano che si segue centrifugamente la loro concatenazione. E chiunque si compiaccia di indugiare sull’incompatibilità di due proposizioni, dovrebbe ragionevolmente dubitare dell’ampiezza del proprio respiro intellettuale, prima che della coerenza di Spinoza.

Spinoza con le sue parole miti, ma terribili, suggerisce agli uomini la liberazione dai miti della religione e della filosofia, dalla credenza nel libero arbitrio, dalla millenaria superstizione sul valore assoluto del bene e del male. Eppure, ancor oggi il bene e il male sono concetti assoluti, e il finalismo domina le menti degli uomini. In Spinoza il problema della conoscenza non si divide dal problema morale. Così in ogni parte della sua opera. L’antitesi fra razionalismo e irrazionalismo, cui da secoli tutti soggiacciono, è guardata dall’alto, secondo la prospettiva del conatus. Il crepaccio che separa l’individuo dal tutto viene saldato, senza danno né per l’una né per l’altra parte. Attraverso la cosa singola si può giungere intuitivamente alla totalità: la tesi mistica è dimostrata con la ragione. Spinoza è un’unità, mentre il mondo moderno è una molteplicità frantumata.

La voce di Spinoza giunge a noi da lontano, sommessa; non chiede di essere ascoltata. L’Etica ha la fermezza di un tempio, in un paesaggio disabitato: se sapremo contemplarlo, penetrare devoti nel suo interno, conosceremo il divino. (Giorgio Colli, da Introduzione a Etica, Roma, 2004, Universale Bollati e Boringhieri)

Spinoza è morto da pochi mesi quando il testo dell’Etica appare nel 1677, compreso nella raccolta Opera posthuma curata dai suoi più stretti amici, e fin da subito attira su di sé insulti scomposti e condanne isteriche. Testo sulfureo e maledetto, messo all’indice nel 1690 e da allora mai più ufficialmente riabilitato, si è guadagnato la fama di libro più pericoloso della storia della filosofia occidentale. Perché? Le ragioni sono molte, spesso sottili e non sempre agevoli da indagare, ma alcune di queste balzano agli occhi fin dalla prima lettura e possono essere indicate con due temutissime parole, ateismo e determinismo, due prese di posizione radicali, logiche, inflessibili e rigorose, al punto da apparire, a torto, disumane.

Il filosofo olandese, che non ha mai contestato l’“accusa” di essere un determinista, respinge invece con vigore quella di essere un ateo, malgrado avesse già assestato alla religione un colpo mortale con il suo incendiario Tractatus theologico-politicus, testo in cui viene demistificato il nocciolo stesso della religione ebraica (in realtà di ogni religione profetica), il concetto di rivelazione. È bene ricordare che a quell’epoca dichiararsi atei significava rischiare seriamente la vita e quindi è comprensibile la prudente scelta di Spinoza di pubblicare in forma anonima il Tractatus, anche se tale precauzione si rivelerà in realtà inutile. Perché, allora, malgrado questo inequivocabile precedente, il filosofo si rifiuta di definire atea la sua filosofia? In effetti, non solo Dio è un concetto che appare a ogni piè sospinto nelle pagine dell’Etica, ma la stessa prima parte ha come titolo De Deo. Il problema, con tutta evidenza, è comprendere cosa intende Spinoza con la parola Dio, compito al cui approfondimento saranno dedicati i prossimi articoli.

Spinoza, e lo vedremo, taglia alla radice la “mala pianta” della religione, che per lui è sinonimo di superstizione, prodotto di un’immaginazione fuori controllo, perché a un tempo spaventata dai pericoli e sedotta dagli adescamenti dell’esistenza: la religione è conoscenza imperfetta, senza rigore, puro arbitrio e il Dio di questa religione-superstizione, un Dio padre che premia e punisce, è un’invenzione totalmente umana. Il Dio di cui Spinoza parla, e che Einstein ha fatto proprio, non è per l’uomo, non ha caratteristiche antropomorfiche, non è e non può essere personale, né tantomeno trascendente, appartenente cioè a una dimensione separata ed eminente rispetto all’uomo e alla natura. Egli usa a tale proposito una formula, tanto citata quanto poco compresa: Deus sive Natura, variamente, e non di rado malamente, tradotta.

Due di queste traduzioni (e conseguenti interpretazioni) sono particolarmente sbagliate: “Dio o la Natura” e “Dio è la Natura”. In tali formulazioni vige, sia pure in forma larvata e surrettizia, un dualismo del tutto estraneo al pensiero di Spinoza. In realtà il sive ha il valore dichiarativo-esplicativo di “ovvero”, “ossia”, “ovverossia”: “Dio ovvero la Natura”, “Dio ossia la Natura” e l’interpretazione corretta è la seguente: “dico e scrivo Dio, ma intendo la Natura”. Che non si tratti di una mera questione terminologica verrà alla luce nel corso dell’analisi del testo spinoziano.

E veniamo alla seconda accusa ben più seria, quella di determinismo, dal momento che tale concetto, se non correttamente compreso, rischia di confinare Spinoza, alla luce della grande svolta “indeterministica” della fisica del Novecento, entro una visione “classica” e ormai obsoleta dell’ontologia. Qui sembrano non esserci dubbi: la filosofia di Spinoza è deterministica in senso assoluto e intransigente e, conseguentemente, è negatrice radicale non solo della contingenza ma anche del libero arbitrio. Eppure anche qui, come nel caso dell’ateismo, risalta un’apparente contraddizione: come può una filosofia deterministica finire con una parte, il De Libertate, interamente dedicata alla libertà? È il luogo più difficile e controverso dell’Etica e per ora mi limiterò a indicarne le coordinate.

Per Spinoza, e non solo per lui, “libertà” non può mai significare azione arbitraria e incausata, compiuta ad libitum dal soggetto. Possiamo tranquillamente affermare che la filosofia di Spinoza è una vera ricerca della libertà proprio nella misura in cui assume come suo nemico principale l’arbitrio, sempre pretenziosamente accompagnato dall’aggettivo “libero”.

Cos’è l’arbitrio? Nel dizionario leggiamo che è la capacità (supposta) di scegliere e di operare, la rivendicata facoltà di autodeterminarsi con la sola volontà, senza essere necessitato da sollecitazioni esteriori di qualsiasi genere o da inclinazioni interne. Questa è, per così dire, l’accezione “buona” del termine. Quella “cattiva”, degenerata, lo intende come un abuso di tale “libera” volontà, fonte del comportamento capriccioso e addirittura licenzioso di chi “fa tutto ciò che vuole”, senza curarsi di leggi morali e civili. È significativo che l’aggettivo derivante da arbitrio, cioè arbitrario, abbia in modo pressoché esclusivo un significato negativo. Arbitrario è ciò che non dipende da una ragione oggettiva, ma esclusivamente dalle decisioni di un singolo e il fatto che tale decisione possa essere positiva, negativa o indifferente è lasciato interamente al capriccio di questo singolo. Ma, allargando il contesto da quello etico o politico a quello più generale, arbitrario è in tutto e per tutto il senza regole, il senza ragione, ciò che non sa rendere conto di sé. Nell’arte, ad esempio, l’arbitrario è ciò che entra (in un’immagine, in una coreografia, in un brano musicale, in una trama narrativa, ecc.) senza alcuna necessità, ma che, lungi dall’esprimere la libertà dell’artista, ne evidenzia l’imperizia, la goffaggine formale, l’impaccio compositivo. Chi agisce, parla, costruisce in modo arbitrario non è un soggetto libero, ma un incapace, il quale scambia l’ignoranza delle cause che lo portano ad agire in un determinato modo con la suprema libertà del soggetto di determinarsi a proprio piacimento. Per Spinoza, invece, e lo vedremo fin dalle definizioni che aprono la prima parte dell’Etica, la libertà è il non essere determinato da nient’altro che dalla propria natura.

Il concetto di causa, centrale nella filosofia di Spinoza e alla comprensione del quale riserveremo in seguito molto spazio, gioca in questo contesto un ruolo essenziale. Nulla, né azione né cosa, è senza una causa. I sostenitori del libero arbitrio, invece, pretendono che esistano azioni che nascono senza alcuna determinazione, volute e messe in atto semplicemente da una libera decisione (= senza causa) del soggetto.

Se ogni azione è determinata, tuttavia, non lo è allo stesso modo: se io agisco determinato dall’esterno, agisco secondo servitù, se agisco determinato dalla mia natura (e natura o essenza è cosa ben diversa da volontà), agisco secondo libertà. Nel primo caso, la mia azione è determinata da una conoscenza inadeguata o parziale (non conosco la completa catena causale che mi determina e questa mia ignoranza mi genera l’illusione di agire senza causa, quindi “liberamente”), nel secondo caso la mia azione è determinata da una conoscenza adeguata o totale (conosco l’intera catena causale che mi determina e so le ragioni che mi hanno spinto ad agire in un certo modo). Alla luce di queste considerazioni anche l’uso del metodo geometrico, su cui torneremo nel prossimo articolo, assume una “giustificazione” meno banale dell’omaggio a una moda: se la conoscenza adeguata richiede la padronanza dell’intera catena causale, solo un’argomentazione che ricavi necessariamente le proprie proposizioni attraverso inferenze logiche da premesse certe può rivendicare di non soggiacere all’arbitrio soggettivo.

L’analisi del determinismo spinoziano richiede la comprensione di un concetto onnipresente nella sua filosofia, anche se quasi mai in forma esplicita, il principio di ragion sufficiente, termine in realtà coniato da Leibniz. Per avere una prima idea di ciò di cui sto parlando uso, opportunamente modificato, un esempio tratto dal fondamentale libro di Alfred Edward Taylor Elements of Metaphysics.

Mentre stiamo percorrendo una strada deserta di campagna, ci imbattiamo in un monolite, tipo quello posto da Kubrick in apertura del suo 2001 Odissea nello spazio. Sorpresi, ci chiediamo come e perché quello strano e inaspettato oggetto si trovi lì. All’improvviso una voce tanto misteriosa quanto imperiosa dichiara che non ci sono risposte alle nostre domande: nessuno ha portato lì il monolite, nessuno lo ha costruito, nessun processo naturale governato da leggi lo ha prodotto, né tantomeno è il prodotto accidentale di una sequenza strana e insolita di eventi. Semplicemente si è trovato lì; un giorno non c’era, il giorno dopo eccolo. Insomma, non c’è alcuna ragione che possa giustificare la presenza del monolite. Se la scoperta del monolite è sorprendente e se ancora più sorprendente è la voce misteriosa, la cosa più incredibile di tutte però è il concedere che essa abbia ragione. L’idea che qualcosa esista senza una causa, una ragione, una spiegazione, che non renda insomma conto del suo esserci, sembra del tutto assurda, dal momento che ci deve essere sempre un perché dell’esistenza di qualcosa, anche se tale perché può esserci sconosciuto.  Il problema così fantasiosamente delineato è il problema del principio di ragion sufficiente. Tale principio, a prima vista, sembra avere un forte richiamo intuitivo: noi cerchiamo sempre spiegazioni e, nostro malgrado, obbediamo, spesso con gravi conseguenze, a questa esigenza con la tacita e perniciosa regola: meglio una spiegazione qualsivoglia piuttosto che nessuna spiegazione.

Leibniz fa di tale principio il fondamento delle verità di fatto o contingenti (a posteriori), contrapposte alle cosiddette verità di ragione, necessarie o identiche (a priori). Per il filosofo tedesco la ragione umana, in quanto finita, non ha la potenza conoscitiva necessaria per determinare a priori la successione e il coordinamento logico-causale delle verità di fatto, cosa che invece può fare per gli enti matematici che rispondono alle sole ‘verità logiche’ e le cui proprietà sono quindi conoscibili e deducibili a prescindere dall’esperienza. Per Leibniz, tuttavia, nel rendere ragione del modo in cui i fatti accadono, è sempre possibile, in linea di principio, identificare i nessi razionali che ne hanno determinato lo svolgimento. Perciò il termine che il filosofo tedesco preferisce è “ragione determinante”. Solo Dio può conoscere a priori quale fra i diversi mondi fattuali possibili sarà attuato, dal momento che solo lui padroneggia senza incertezze il criterio del “migliore” dei mondi possibili. L’uomo può solamente concedere che, se Cesare ha varcato il Rubicone, tale fatto deve aver avuto un fondamento causale e razionale anche prima che si realizzasse. Ripercorrere la catena causale dopo che il fatto è avvenuto è possibile per l’uomo in modo solamente parziale, (a differenza di quanto si può fare con le proprietà geometriche di un cerchio, di cui abbiamo una notio completa) e tuttavia, a detta di Leibniz, in modo “sufficiente” per spiegarne il verificarsi, per “rendere ragione” del suo essere avvenuto.

Qual è il guadagno epistemologico di questa prospettiva? Quello di salvare il contingente dalla sua precarietà ontologica, rendendolo in via di principio, non ugualmente stringente, ma compatibile con la razionalità causale. Come scrive nella Monadologia (39, 45)

Nessun fatto può risultare vero o esistente, nessuna proposizione veridica, senza che vi sia una sufficiente ragione per cui sia così e non altrimenti, benché perlopiù tali ragioni non possano esserci note.

Nell’undicesimo assioma della Prima parte de I principi della filosofia cartesiana (1663) Spinoza formula tale principio con le seguenti parole:

Non esiste cosa alcuna della quale non si possa chiedere quale sia la causa ossia la ragione della sua esistenza. (Nulla res existit, de qua non possit qaeri, qaenam sit causa – sive ratio – cur existat)

Il sive usato dal filosofo ha la stessa funzione esplicativo-dichiarativa del più famoso sive di cui ho parlato sopra, quello di dichiarare inequivocabilmente la sinonimia fra causa e ragione secondo il più genuino spirito razionalistico. In un razionalismo meno esasperato di quello spinoziano causa e ragione hanno differenti accezioni più o meno sfumate. Causa è infatti una determinazione fisico-ontologica, ha a che fare con la realtà, ragione invece una determinazione logico-ontologica, ha a che fare con la conoscenza. Questo non vale per il filosofo olandese, il quale parla di effetti implicati nelle cause, come le conseguenze nelle premesse. In una breve nota esplicativa a questo undicesimo assioma Spinoza lega il principio di ragion sufficiente al più noto e universalmente (o quasi) accettato principio classico del ex nihilo, nihil fit.

Essendo l’esistenza qualcosa di positivo, non possiamo dire che abbia per causa il nulla (per l’ass. 7), dunque dobbiamo assegnare una causa ossia una ragione positiva dell’esistenza di una cosa; e questa causa sarà esterna, cioè fuori della cosa stessa, oppure interna, cioè compresa nella natura e definizione della cosa esistente.

Nessuna cosa inesistente può causare una cosa esistente. A dire il vero, l’universale validità di questo principio sembra smentita, sia pure in modo non esplicito, fin dall’inizio del pensiero spinoziano, dal momento che nel § 70 del Trattato sull’emendazione dell’intelletto viene affermata la “possibilità” che almeno un ente sia senza causa.

Si dice anche vero il pensiero che implica obiettivamente l’essenza di un qualche principio che non ha causa e si conosce in sé e per sé.

Anche se non detto, tale principio è senza dubbio la Natura, la quale non ha bisogno di una causa per esistere, ma di questa assenza è agevole, nella prospettiva spinoziana, dare ragione. La Natura, infatti, non può presupporre nulla fuori di sé, cosa che dovrebbe fare se producesse se stessa come una causa produce i suoi effetti, ammettendo con ciò una causa transitiva o esterna. Come si vedrà al momento di analizzare la prima definizione dell’Etica, l’essere o l’esistenza della Natura è implicato nella sua stessa essenza, come una conseguenza logica è implicata nella premessa.

Nel Tractatus teologico-philosophicus, pur mai esplicitamente nominato, il principio di ragion sufficiente percorre sotterraneamente quasi tutto il testo, diventando evidente nella discussione sui miracoli.

Dato che i miracoli apparvero tali in conformità con la mentalità del volgo che ignorava affatto i principi dei fenomeni naturali, è certo che gli antichi consideravano “miracoloso” ciò che non riuscivano a spiegare con quei mezzi e in quel modo che il volgo usa per spiegare i fatti di natura. … Il volgo ritiene di aver capito a sufficienza una data cosa, quando essa non è tale da provocare il suo stupore. (TTP, 6.5) (c.m.)

Il volgo, verso il quale Spinoza quasi mai mostra benevolenza e comprensione, ha ragione nel cercare una spiegazione, un “perché” a eventi straordinari o che tali gli appaiono, ma tale spiegazione la dà a modo suo: ignorando i principi dei fenomeni naturali, mette in moto quella straordinaria facoltà produttrice di verità fittizie (e fasulle) che è l’immaginazione e, invece di cercare con costanza e rigore di risalire quanto più sia possibile lungo la catena causale, fa intervenire d’emblé un deus ex machina che risolve l’enigma con facilità e soddisfazione.  Sempre il volgo ha fame di verità-spazzatura: è un miracolo! È stato Dio, la Madonna, San Gennaro, ecc. Ma la Natura, instancabile produttrice di domande e problemi, di novità e varietà, è MERAVIGLIOSA non MIRACOLOSA.

Breve digressione: il determinismo e la scienza moderna

Avrò modo di mostrare quanto tale principio sia operante anche nell’opera maggiore di Spinoza e lo faccia senza eccezioni. Il determinismo, tuttavia, se appare in sintonia con il razionalismo seicentesco, ci lascia perplessi oggi, in un’epoca in cui vanno di moda posizioni “indeterministiche” e passioni acritiche su teorie del caos e della complessità. Apriamo allora una breve parentesi per un primo elementare approccio a questa tematica nella scienza e nell’epistemologia.

Il barone D’Holbach e Pierre-Simon de Laplace sono tra i più radicali pensatori deterministi come dimostrano due loro famose asserzioni.

In un turbinio di polvere sollevata da un vento impetuoso, per quanto confuso appaia ai nostri occhi, nella più terrificante delle tempeste scatenata da venti opposti che alzano le onde, non c’è una sola molecola di polvere o di acqua che sia posta per caso, che non abbia la sua propria causa sufficiente per occupare il luogo in cui si trova, e che non agisca rigorosamente nel modo in cui deve agire. Un geometra che conoscesse esattamente le diverse forze che agiscono nei due casi, e le proprietà delle molecole mosse, dimostrerebbe che, in base alle cause date, ogni molecola agisce proprio come deve agire, e non può agire diversamente da come faccia. (D’Holbach, Système de la Nature)

Dobbiamo dunque raffigurarci lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore, e come la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che per un dato istante conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se d’altra parte fosse così vasta da sottoporre questi dati all’analisi, abbraccerebbe in un’unica e medesima formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del più lieve atomo: niente sarebbe incerto per essa, e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. (Pierre-Simon de Laplace, Essai philosophique sur les probabilités)

Questo determinismo, sovente chiamato assoluto e ingenuo, si applica tanto alla realtà, costituita da cose e stati di cose rigorosamente connesse da legami causa-effetto, quanto alla sua conoscenza, dato che, se disponessimo su di essa di tutte le informazioni possibili in un determinato momento, potremmo prevedere, senza errore il suo stato in qualunque altro momento passato e futuro. In che modo agisce il moderno “indeterminismo” su questa convinzione? Credo di poter affermare che è il determinismo epistemologico a essere messo soprattutto in discussione dalla scienza moderna, anche se mostrerò come lo stesso determinismo ontologico possa vacillare.

Il determinismo è legato al principio di causalità: nelle stesse condizioni uguali cause producono uguali effetti e tale principio non viene messo in discussione dai teorici del caos, mentre viene contestata la linearità del rapporto fra cause ed effetti, l’idea cioè che gli effetti siano direttamente proporzionali alle cause (a cause piccole seguono piccoli effetti a cause grandi effetti grandi). Come appare chiaro da una grande quantità di esperienze, in primo luogo in campo meteorologico con il famoso effetto farfalla di Lorenz, (un battito d’ali di una farfalla nella foresta amazzonica può provocare, per una sequenza di effetti connessi fra loro in modo non lineare, un uragano a New York, ma anche impedirlo, perché no?) esistono sistemi cosiddetti sensibili alle condizioni iniziali in cui piccole variazioni di queste condizioni possono provocare grandi variazioni dovute al propagarsi di amplificazioni (o attenuazioni) assolutamente non proporzionali a queste variazioni.

A dire il vero, la violazione del principio di causalità è più apparente che reale. Per riprodurre un’esperienza nelle stesse condizioni, la sensibilità alle condizioni iniziali di un sistema dinamico deterministico impone di raggiungere una precisione infinita su queste condizioni al fine di ottenere strettamente gli stessi effetti. Essendo ciò impossibile a causa della precisione limitata degli strumenti di misura (come è possibile ottenere una precisione infinita riguardo a entità così “indeterminabili” come  le particelle elementari?), un caos (= uno stato di cose praticamente imprevedibile) emerge necessariamente.

La fisica quantistica, a causa del malinteso (da parte dei filosofi) principio di indeterminazione di Heisenberg (è impossibile conoscere con un’infinita precisione la posizione e la velocità di una particella nello stesso momento, contrariamente ai dati richiesti dall’esempio di Laplace) è a torto considerata come una teoria che introduce l’indeterminismo nell’indagine scientifica della natura. Ma anche qui si tratta di un problema posto male, dal momento che una particella subatomica non ha, strettamente parlando, né posizione né velocità, che sono proprietà degli oggetti classici. Questo ci porta a riflettere sul fatto che la realtà, nel senso in cui noi usiamo questo termine, poggia di fatto su una a-realtà. Se con reale intendiamo tutto ciò che c’è, allora appare ineliminabile in primo luogo il contesto spazio-temporale, solo all’interno del quale siamo in grado di concepire qualcosa, altrimenti passeremmo a una dimensione non più empirica, ma astratta, come le figure geometriche o i concetti matematici in generale. Ma il mondo sub-atomico è estraneo tanto a questo “ambiente” deciso da coordinate esperienziali quanto alla mera astrazione degli oggetti matematici. La nostra realtà è appunto “nostra” e “dietro” di essa c’è una a-realtà (o meglio, la nostra stessa realtà è costruita di a-realtà) che non è né intuitiva né razionale nel senso classico di questi due concetti.

Il determinismo è duro a morire, ammesso, ma non concesso, che sia una sorte per esso obbligata e con il determinismo anche la visione necessitaristica della realtà, secondo la quale non solo tutto ciò che c’è, ma anche (affermazione ben più impegnativa) tutto ciò che non c’è, c’è o non c’è perché doveva esserci o non poteva esserci. L’idea che tutto ciò che è “possibile” debba esistere, quindi che il possibile e il contingente non esistano, è un’idea forte di Spinoza su cui torneremo in maniera approfondita nel corso della nostra analisi dell’Etica. Ed è un’altra idea che sembra confliggere con acquisizioni consolidate del moderno pensiero scientifico come quella incontestabile che, se la storia naturale del mondo iniziasse nuovamente, niente sarebbe, nel dettaglio, uguale a prima. Bisogna intendere correttamente il determinismo spinoziano, che, a mio avviso, è del tutto compatibile, con opportuni aggiornamenti, con il caos deterministico e con la teoria della complessità: è forse vero che nulla esiste di cui non si possa dare ragione (ossia causa), ma è per lo meno altrettanto vero che la “catena delle cause” non è tale nel senso della dipendenza lineare (più che una catena è un groviglio).

Il concetto centrale è quello di dipendenza dalle condizioni iniziali, secondo cui anche piccolissimi cambiamenti dello stato iniziale possono produrre, in forza di uno sviluppo non lineare, grandi e catastrofici effetti. Ora la fisica quantistica ha mostrato che il concetto stesso di STATO INIZIALE è CONTRADDITTORIO, visto che in ogni istante infinitesimale lo stato di un sistema è per natura indeterminato: le particelle, sia reali che virtuali, non ammettono un momento in cui siano tutte ferme e determinate, momento a partire dal quale si possa dare il via al processo della realtà. L’indeterminazione sta nell’inizio, concetto sommamente e irrimediabilmente indeterminato, e in ogni “punto” della catena o del groviglio causale, nella misura in cui si tenti di vederlo come un punto determinato. Come scrive il fisico Leonard Susskind, sostenitore della teoria delle stringhe in un suo libro:

Anche se eliminassimo tutta l’energia cinetica possibile, rimarrebbero delle fluttuazioni residue impossibili da eliminare. Tremori quantistici. L’energia cinetica associata a questi tremori quantistici si chiama energia di punto zero ed è ineliminabile, energia del vuoto. (Leonard Susskind, Il Paesaggio cosmico, Adelphi, p. 28 e seg.)

La “libera necessità” e il fine dell’Etica

Al di là di questi risvolti strettamente fisico-ontologici, il determinismo spinoziano implica decisive conseguenze etiche, tutte focalizzate attorno al concetto di libertà. Come ci può essere libertà in un mondo fatto di concatenazioni necessarie? La risposta filosofica più pregnante a questo problema è stata data da Deleuze, che ha opportunamente messo al centro della sua interpretazione spinoziana il concetto di espressione, ma una prima suggestiva comprensione si può ottenere con l’aiuto di una suggestiva immagine che rubo a Remo Bodei. La libertà spinozianamente intesa è come quella di un ballerino o di un acrobata, i quali, lungi dal deprecare la forza di gravità (metafora della necessità), ne assecondano i vincoli, ne sfruttano le “costrizioni”, creando bellezza e leggerezza e mostrando con somma efficacia “che cosa può un corpo”, locuzione quasi compendiaria dell’Etica spinoziana.

Il tragitto che ci accingiamo a percorrere ci condurrà a comprendere il concetto fondamentale dell’Amor intellectualis Dei, coronamento dell’opera. Spinoza naturalmente non sta proponendo una religione razionale, liberata dal pathos sentimentale e dall’ingenuo antropomorfismo, come qualche critico ha cercato di attribuirgli. Questa formula rappresenta, per le ragioni che vedremo, la sintesi e il compimento del cammino di conoscenza di quest’opera che si chiama Etica, ma che sarebbe errore fatale intendere come un libro di morale.

4 pensieri riguardo “Analisi dell’Etica di Spinoza. Introduzione

  1. Buon giorno Professore
    Ho letto con interesse quanto sopra e Le chiedo: ha postato altri commenti all’Eticha? Mi farebbe davvero piacere prenderne visione.
    La ringrazio e saluto con stima,
    Luigi Pavan

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    1. Entro il mese di agosto uscirà il secondo articolo di commento all’Etica, poi, a partire da ottobre/novembre sono previsti due commenti al mese, fino all’analisi completa dell’opera, che dovrebbe concludersi per giugno/luglio dell’anno prossimo. Seguiranno i commenti al Trattato teologico-politico e quello al Trattato politico.
      Cordiali saluti
      Giuliano Antonello

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  2. Carissimo amico di Spinoza. mi laureai 1975 a PD con una tesi su Spinoza. Poi le vicende della vita mi fecero viaggiare in altre direzioni. Da qualche anno ho ripreso la consuetudine con Spinoza, attraverso autori (Deleuze, Cristofolini…) In “Spinoza, pagine scelte” Cristofolini riporta dalla lettera XII a Lodevijk Meijer uno scritto di Spinoza sull’infinito. A pag 40 fa una distinzione tra ” le cose infinite per loro natura (io penso alla sostanza, nota mia) e altre infinite per la causa a cui ineriscono” Non mi è chiaro perché Spinoza le definisca infinite per la causa cui ineriscono, intendendo, io credo, i modi della sostanza. Può aiutarmi a capire questo? Grazie, Vittorio Maturi

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    1. Il tema dell’infinito è cruciale nella filosofia di Spinoza e ad esso dedicherò un articolo nel prossimo futuro. Per quanto riguarda la lettera XII a cui Lei fa riferimento, in realtà, come ben spiega Deleuze nel suo libro Spinoza. Philosophie pratique (Les éditions de minuit, p. 111-112), gli infiniti a cui il filosofo si riferisce sono di tre tipi:
      1) l’infinito illimitato per natura (sia infinito in un genere, come ogni attributo, sia assolutamente finito come la sostanza). È l’unico vero infinito in senso proprio, proprio solo dell’essenza della sostanza, senza limiti e conoscibile solo mediante la conoscenza di terzo genere, l’intelletto.
      2) l’infinito illimitato per causa propria (= per la causa cui inerisce), si tratta dei modi infiniti immediati nei quali gli attributi si esprimono assolutamente. È in realtà un infinito improprio in quanto non tale per propria definizione, ma avente un inizio, una causa (che è infinita, ecco perché Spinoza parla di cose infinite in forza della causa cui ineriscono). Gli attributi e i modi infiniti appaiono infiniti alla ragione umana, ma per Dio e l’intelletto umano, la cui conoscenza, come sappiamo, è per Spinoza sempre adeguata, sono costitutivamente determinati da una causa. Cito Deleuze: “(i modi infiniti) hanno un’infinità attuale di parti, tutte concordanti e indissociabili le une dalle altre: così, le essenze dei modi contenute nell’attributo (ogni essenza è una parte intensiva o un grado). Questo è il motivo per cui se consideriamo astrattamente una di queste essenze, separata dalle altre e dalla sostanza che le produce, la intenderemo come limitata, esteriore alle altre. Inoltre, dato che l’essenza non determina l’esistenza e la durata del modo, intendiamo la durata come un qualcosa che può essere più o meno lungo, l’esistenza come composta di più o meno parti, e le fissiamo astrattamente come delle quantità divisibili”.
      3) l’infinito che non può venire uguagliato da alcun numero, per quanto grande sia e pur comportando un massimo e un minimo, è l’innumerabile, limitato ma indefinibile, senza la possibilità di assegnare un numero. È conoscibile anche solo mediante la conoscenza di primo genere e riguarda i modi finiti. Sempre Deleuze: “Questo infinito rinvia questa volta ai modi finiti esistenti e ai modi infiniti mediati che essi compongono secondo certi rapporti. Infatti, ogni essenza di modo, in quanto grado di potenza, comporta un massimo e un minimo; e in quanto il modo esiste, un’infinità di parti estensive gli appartengono sotto il rapporto che corrisponde alla sua essenza. Questo infinito lo si definisce per il numero delle sue parti, poiché queste ultime procedono sempre per infinità che oltrepassa ogni numero; e tale infinito può essere più o meno grande, perché a un’essenza il cui grado di potenza è doppio di un’altra corrisponde un’infinità di parti estensive due volte più grande. Questo infinito è quello dei modi esistenti, e l’insieme infinito di tutti questi insiemi, con tutti i rapporti caratteristici, costituisce il modo infinito mediato. Ma quando concepiamo l’essenza del modo astrattamente, concepiamo anche l’esistenza astrattamente, misurandola, contandola e facendola dipendere da un numero di parti arbitrariamente determinato”.
      La conclusione è decisiva: “non vi è dunque alcunché di indefinito, salvo astrattamente. Ogni infinito è in atto o attuale”.

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