Il concetto di idea in Hegel
Il bello è l’idea in una sua forma determinata, l’ideale. Per comprendere questo basilare concetto dell’Estetica hegeliana, è necessario che noi ci interroghiamo su che cos’è l’idea in generale per Hegel.
L’idea in generale è nient’altro che il concetto, la realtà del concetto e l’unità di entrambi. Infatti il concetto come tale non è ancora l’idea, sebbene concetto e idea siano spesso usati in modo promiscuo; soltanto il concetto presente nella sua realtà, e posto in unità con essa, è idea. Questa unità tuttavia non può essere rappresentata come una semplice neutralizzazione di concetto e realtà in modo che entrambi perdano la loro peculiarità e qualità, come la potassa e l’acido si neutralizzano nel sale, in quanto hanno reciprocamente smussato la loro opposizione. Al contrario, in questa unità, dominante resta il concetto. Infatti esso è già in sé, per sua propria natura, questa identità, producendo quindi da se stesso la realtà come la sua propria realtà, in cui esso dunque non rinuncia a niente di sé, poiché la realtà è il suo autosviluppo, ma vi realizza solo se stesso, il concetto, rimanendo quindi in unità con sé nella sua oggettività. Questa unità del concetto e della realtà è la definizione astratta dell’idea. (E, 144)
Il concetto è il “che cos’è” sostanziale di una cosa. Questo non va confuso né con il concetto come astratta definizione di una cosa, né con il concetto nel senso kantiano del termine come unità o sintesi del molteplice. Per Hegel il concetto è sintesi di essere e di essenza, è il soggettivo e l’oggettivo nella loro intima unità. La realtà del concetto, invece, è il concetto in quanto si pone come esistente e non come semplicemente pensato. L’idea, allora, è l’unità di entrambi (del concetto e della sua realtà), non presi come lati separati e uniti solo estrinsecamente, ma nella loro intrinseca e indissolubile unità. Il concetto è già in sé identità di concetto e realtà, perché quest’ultima, per Hegel, altro non è che l’autosviluppo del concetto.
La realtà non è semplicemente ciò che appare nella sua immediatezza, ma ciò che appare conformemente al suo concetto e questo comporta non il semplice esser qualcosa, ma il diventar qualcosa. L’uomo, ad esempio, per essere conformemente al proprio concetto, non deve semplicemente essere, ma diventare ciò che è, compito che è ben altro da un astratto e volontaristico acquistare consapevolezza di sé come io psicologico, perché comporta, e la Fenomenologia bene lo mostra, la ricapitolazione in sé della storia del mondo. “Diventare” qualcosa perché la realtà, in quanto tale ha un contenuto spirituale che non è costituito solo dalle sue determinazioni e dalle sue particolarità, ma comprende necessariamente anche la sua storia.
L’idea allora nella sua definizione generale è l’unità concreta di concetto e oggettività. Il concetto non è l’unità astratta contrapposta alle differenze della realtà: il concetto di uomo non è il genere sotto cui si raccolgono le determinatezze empiriche (i molti e differenti uomini della realtà). L’uomo è unità mediata di sensibilità e ragione.
La rappresentazione “uomo” abbraccia l’opposizione di sensibilità e ragione, di corpo e spirito, mentre l’uomo, però, non è solo composto da questi lati come componenti indifferenti, ma li possiede secondo il concetto in un’unità concreta, mediata. Ma il concetto è in tal grado assoluta unità delle sue determinatezze, che queste non sono niente per se stesse e non possono realizzarsi ad autonomo isolamento, con il che uscirebbero dalla loro unità. Perciò il concetto contiene tutte le sue determinatezze nella forma di questa loro ideale unità e universalità, che costituisce la sua soggettività a differenza dal reale e dall’oggettivo. Per es. l’oro è di peso specifico, di colore, determinati, si comporta in modo particolare di fronte ad acidi di vario genere. Queste sono determinatezze diverse, che tuttavia sono senz’altro in unità. Infatti ogni più sottile particella d’oro le contiene in inseparabile unità. (E, 146-147)
Questo significa che le determinazioni che costituiscono il concetto di uomo, la ragione e la sensibilità, prese isolatamente sono mere astrazioni e solo compenetrate l’una nell’altra sono reali. È l’intelletto che opera distinzioni e opposizioni, lasciando le determinazioni nel loro mero essere. Astratto, ad esempio, è considerare l’apparato digerente come insieme di organi variamente interconnessi come fa l’anatomia, ma astratto è anche considerare la digestione come mera funzione fisiologica. La nutrizione è una cosa che condividiamo con gli animali, ma se cerchiamo di comprenderla dal mero versante funzionale, la perdiamo come concreta espressione dell’umano: ci rimarrebbero incomprensibili non solo tutte le elaborazioni culinarie, ma la stessa efficacia (non solo la gustabilità) del cibo. L’uomo che mangia come un animale soccombe a un’immagine astratta e unilaterale di sé, ma anche l’uomo che mangia governato da un’inflessibile razionalità (pensiamo alle diete più rigorose) è altrettanto, se non forse ancor più, astratto.
Per Hegel le determinazioni concettuali non hanno autonomia, cioè esse entrano in un concetto non come parti esteriori l’una rispetto all’altra, ma come organi di un tutto. Il concetto, allora, non è il generale che compendia astrattamente la dispersa particolarità o molteplicità, bensì è l’universale che si nega per forza propria a determinatezza e particolarizzazione (le particolarità non sono mere particolarità, ma le particolarità di quell’universale) e perciò toglie a tale particolarizzazione la sua estraneità. Detto altrimenti, per Hegel il concetto si autodetermina: gli uomini particolari non sono esemplari esistenti di un concetto solo pensato, ma ogni uomo porta come determinatezza la particolarizzazione dell’universale proprio.
In quanto intima unione di determinatezze (questo significa che le determinatezze non sono fra loro estranee) il concetto è il vero singolare, la vera singolarità. Al dualismo “generalità dell’intelletto” e “particolarità della percezione”, cui corrisponde la duplice unilateralità dell’astrazione e dell’empiria, Hegel propone il concetto come singolarità concreta, laddove l’universale non è generica identità e il particolare non è dispersa molteplicità che ha fuori di sé la propria unità e, quindi, la propria ragione. In quanto singolarità, il concetto è totalità: è l’unità con sé nell’essere altro e ha ogni negazione solo come autodeterminazione e non come limitazione estranea a opera di altro. Vediamo però come avviene il movimento dialettico a partire da questa singolarità (o totalità) che è il concetto.
Il concetto si distingue al contempo dall’idea per il fatto che esso è la particolarizzazione solo in astratto, poiché la determinatezza, in quanto contenuta nel concetto, rimane ferma nell’unità e nell’universalità ideale, che è l’elemento del concetto. Ma allora il concetto stesso rimane ancora nell’unilateralità ed è affetto da questa manchevolezza, che, pur essendo in se stesso la totalità, tuttavia concede il diritto a un libero sviluppo solo al lato dell’unità e dell’universalità. Ma poiché questa unilateralità è inadeguata all’essenza propria al concetto, il concetto secondo il proprio concetto la toglie. Egli si nega come questa ideale unità e universalità e fa ora uscire fuori ad oggettività reale ed autonoma ciò che quella unità e universalità racchiudevano in sé in ideale soggettività. Il concetto con la sua propria attività si pone come l’oggettività. (E, 148-149)
L’oggettività, allora, altro non è che la realtà del concetto. Come il concetto è l’unità soggettiva delle determinazioni, così la realtà è l’unità oggettiva di queste determinazioni, unità oggettiva che è il concetto stesso a darsi. Hegel chiama questa forza di unificazione “la potenza del concetto”: il fatto che il concetto nell’oggettività, non solo non si disperde nella molteplicità dell’empirico, ma rivela questa sua unità proprio mediante la realtà. L’unità di concetto e realtà è allora l’idea.
Riassumiamo questo passaggio così difficile, ma di fondamentale importanza per la comprensione della filosofia di Hegel. Il concetto, l’oggettività e l’idea sono singolarità o totalità: il concetto è la totalità o singolarità soggettiva (l’unità in sé dell’universale e del particolare), l’oggettività è la totalità o singolarità oggettiva (l’unità fuori di sé dell’universale e del particolare), l’idea è la totalità o singolarità assoluta. Lo studio dell’idea del bello, nel suo essere in sé (il bello artistico o l’ideale), nel suo sviluppo (le forme del bello artistico) e nelle sue particolarizzazioni (il sistema delle singole arti) ci darà l’occasione per vedere concretamente l’applicazione di questo complesso nodo concettuale.
Da quanto detto circa l’idea in generale discende un corollario di fondamentale importanza: non ogni esistente è vero o reale. Hegel non sta proponendo in termini diversi la banalità filosofica di un mondo delle apparenze contrapposto a un mondo reale. Sta dicendo una cosa molto più forte e più dura da accettare: sta dicendo che non tutto l’essere è essenziale, non tutto ciò che c’è, che pure empiricamente c’è, che pure empiricamente esiste, deve esserci, ma può esserci oppure no, la sua esistenza è meramente accidentale, affetta da un’accidentalità senza riscatto e senza fondamento. Se solo l’idea in quanto unità di soggettività e oggettività è veramente reale, allora non basta che qualcosa ci sia perché sia vero, non basta esistere per essere reali, ma bisogna esistere conformemente al proprio concetto. Una cosa, una realtà è vera solo se esiste in conformità al proprio concetto. Ancora una volta non dobbiamo fraintendere la concezione di Hegel. Nell’arte, molto di ciò che sembrerebbe meramente, fugacemente accidentale ha invece realtà vera in quanto conforme al suo concetto (v. la splendida analisi hegeliana sulla pittura olandese e fiamminga), mentre ciò che potrebbe apparire come l’ideale e il sostanziale (pensiamo alle forme neoclassiche) è invece vuoto ed infondato. Ricordiamo, infatti, che il concetto non è affatto il generale, ma il singolare, l’intima unità di universale e di particolare. Il meramente esistente, allora, non coincide con l’accidentale, ma con l’estraneo, con l’intruso, con ciò che meramente sopravvive o con ciò che non ha potenza di durare, come la foglia flaccida che inutilmente tenta di impedire il sorgere di nuove gemme o come le esistenze velleitarie, che non riescono a essere ciò che vorrebbero essere. E allora,
verità, non già nel senso soggettivo, che un’esistenza si mostra conforme alle mie rappresentazioni, ma nel significato oggettivo, che l’Io o un oggetto esterno, un’azione, un avvenimento, una situazione realizza nella propria realtà il concetto stesso. Se manca questa identità, l’esistente è solo un’apparenza in cui si oggettivizza, al posto del concetto totale, solo un qualsiasi suo lato astratto, che, rendendosi autonomo in sé di contro la totalità e l’unità, può immiserirsi fino a essere opposizione al vero concetto. (E, 150)
La realtà, in quanto ideale e concreta, ha i suoi nemici in queste a un tempo misere e arroganti unilateralità: una mia rappresentazione privata che si oggettivizza, può diventare l’ossessione, l’idea fissa, il fanatismo. Sono le miserie che ingombrano, ostacolano, ma non impediscono, secondo Hegel, la realizzazione dell’idea, perché sarà la realtà stessa a smascherarle come tali e a metterle da parte come ciarpame. Un’idea ottimistica e terribile allo stesso tempo: ottimistica perché comunque l’identità di reale e razionale viene salvaguardata, tremenda perché non solo le mere accidentalità, ma alla fine anche le grandi individualità, prese in quanto tali, altro non sono che mezzi di cui si serve astutamente la ragione per realizzarsi.
L’idea del bello
Contro ogni idea tradizionale che confina la bellezza nel soggettivo, nell’illusorio, nel sentimentale, Hegel afferma che, se la bellezza è idea, allora la bellezza è realtà vera. Bellezza e verità sono la stessa cosa. L’identità, naturalmente, non comporta l’astratta uniformità: l’identità di bellezza e verità non significa la loro indistinta uguaglianza. La bellezza è verità, ma non verità nel senso proprio del termine, bensì un certo modo d’essere della verità. Il vero come tale, nella sua forma appropriata, è l’idea quale essa è ed è pensata come idea: verità è l’idea universale per il pensiero. Ma, come abbiamo visto sopra, l’idea per Hegel, nel suo vero concetto, non è solo qualcosa che si dà per il pensiero, ma è anche qualcosa che deve esistere all’esterno, che deve darsi come oggettività, come esistenza attuale. Il vero, se è vero, se non è astrazione, se è reale, deve anche esistere. In quanto l’idea si determina a esistenza esteriore, non è solo vera, ma anche bella. Ed ecco allora la definizione generale di bellezza per Hegel: la bellezza è la parvenza sensibile dell’idea.
E in questa veste il sensibile vige in modo ben diverso dal suo mero essere.
Infatti il sensibile e oggettivo in generale non conserva nella bellezza un’autonomia in sé, ma deve rinunziare all’immediatezza del suo essere, poiché questo essere è solo esistenza e oggettività del concetto, ed è posto come una realtà che porta il concetto a unità con la sua oggettività, e quindi in questa esistenza oggettiva, che vale solo come parvenza del concetto, porta a manifestazione l’idea stessa. (E, 151)
Questo è un punto assolutamente decisivo: il sensibile è bello quando rinuncia al suo puro essere, per essere manifestazione dell’idea. La bellezza è il sensibile compenetrato dal concetto, conforme a esso: non un sensibile vuoto o petulante, invadente o protervo, né un sensibile asservito, ma un sensibile liberato dalla sua estraneità, purificato. In opposizione al sensibile bruto (la mera materia) o al sensibile utile (il materiale), il sensibile spiritualizzato.
L’intelletto non è in grado di cogliere la bellezza perché non sa cogliere l’unità delle differenze, delle determinazioni, delle particolarità e si arresta sempre al finito, all’unilaterale, al falso.
Se l’intelletto è cieco al bello, anche la finitezza della volontà lo è altrettanto. In quanto intelligenza finita, l’uomo si dispone davanti alle cose come se queste fossero autonome. Hegel sta qui delineando la classica relazione soggetto-oggetto: da un lato, c’è il soggetto percipiente o conoscente, dall’altro, ci sono le cose da conoscere. In questa relazione si fronteggiano due estraneità sotto il dominio di un ben definito atteggiamento. La fede nelle cose, in una oggettività chiusa in se stessa, che l’uomo può accogliere nel suo vero essere solo se si spoglia delle proprie aspettative, delle proprie inclinazioni, del proprio filtro sensibile (abducere intellectum a sensibus). Solo allora decretiamo che questi oggetti, ridotti a pure forme o a rapporti quantitativi, sono i veri oggetti. Lo stesso vale per quello che Hegel chiama il volere finito: se prima era il soggetto conoscente a essere determinato dalle cose, ora sono le cose a subire la determinazione del soggetto. Il soggetto le mette al suo servizio considerandole e trattandole come utili.
Il soggetto nel rapporto teoretico è finito e non libero ad opera delle cose, di cui è presupposta l’autonomia; nel rapporto pratico è finito e non libero ad opera dell’unilateralità, della lotta e dell’interna contraddizione dei fini e degli impulsi e passioni provocati dall’esterno. (E, 153)
La bellezza unifica i due punti togliendo l’unilateralità di entrambi. Nell’oggetto bello sono presenti tanto la necessità quanto la libertà. Il concetto pone la necessità che le particolarità che costituiscono la cosa appaiano in quella condizione che Hegel chiama di “riscontro reciproco”. Nell’oggetto conforme al suo concetto ogni particolarità è tale che, una volta presente, esige tutte le altre determinatezze che costituiscono l’oggetto stesso. Questa necessità, a dire il vero, vale per ogni cosa autenticamente reale, che non deve essere costituita da determinazioni irrelate con l’insieme. Un’istituzione come lo stato o la famiglia, se hanno vitalità spirituale, devono manifestare nelle parti che le compongono una coesione che non è sbagliato definire organica. Qui però non siamo ancora all’oggetto bello.
La bellezza, per essere tale, da un lato, deve “esibire” questa necessità come intima coesione, come fusione delle parti, ma, dall’altro, la deve “nascondere” dietro la parvenza di un’accidentalità non intenzionale. Se le particolarità di un oggetto bello non apparissero come libere, cioè non costrette da alcuna legge, esse non avrebbero vita. Il bello allora è l’idea come realtà immediata del concetto e della sua realtà, nella misura in cui questa sua realtà esiste immediatamente sotto parvenza sensibile.
Solo la bellezza artistica è la realtà conforme all’idea del bello. Perché il bello artistico è l’ideale, mentre il bello naturale è manchevole e imperfetto? Come sappiamo, l’idea non è solo sostanza e universalità, ma l’unità del concetto e della sua realtà. L’idea platonica, osserva Hegel, non è ancora il vero concetto, perché essa è affermata come vera solamente in quanto è colta nella sua universalità. In altre parole, essa non è ancora realizzata e vale solo come idea in sé. Il genere è reale solo come libero individuo concreto, la vita esiste solo come singolo vivente, il bene viene realizzato dai singoli uomini. Solo la singolarità concreta è vera e reale, non l’universalità e le particolarità astratte. Ora, Hegel afferma che l’unità dell’idea e della sua realtà, cioè la singolarità concreta, è l’unità negativa dell’idea come tale e della sua realtà. Cosa significa?
Significa che l’unità si realizza negando autonomia sia all’universalità in sé dell’idea (l’idea che esiste in sé come nel mondo platonico) sia alle particolarità in quanto tali (le idee che si danno solo come concetti generali derivanti dall’astrazione delle particolarità, com’è ad esempio per l’empirismo). Negando e superando cioè la differenza di entrambi i lati dell’idea. L’idea della vita non è né la generica e universale vitalità in sé né i molteplici viventi presi nella loro particolarità, ma l’unità di entrambi negati e superati nella loro unilateralità. L’universalità come soggettività in sé e le particolarità come oggettività fuori di sé si ricomprendono come soggettività in sé e per sé, quella che per Hegel è la singolarità concreta.
Ora la singolarità può acquistare una doppia forma, quella immediata e naturale o quella spirituale. In entrambe l’idea si dà esistenza e in entrambe il contenuto sostanziale è lo stesso. Questo vuol dire che il bello della natura ha lo stesso contenuto dell’ideale o del bello artistico. E tuttavia, come già sappiamo, questo contenuto è attraversato da una differenza essenziale dovuta alla forma in cui appare. Hegel si chiede quale sia la forma veramente corrispondente all’idea e da questa domanda emergerà, da un lato, l’insufficienza, la manchevolezza del bello naturale e, dall’altro, la necessità del bello artistico. Se l’idea si presentasse già nella sua forma adeguata nelle belle forme della natura, non ci sarebbe alcuna necessità del bello artistico e l’arte sarebbe una piacevole occupazione, uno svago, un’attività accessoria. Hegel conduce tale indagine prendendo in considerazione la singolarità immediata, cioè l’apparire naturale dell’idea, una singolarità immediata che non è propria solo della natura, ma anche dello spirito.
L’insufficienza del bello naturale e la necessità dell’arte
Cos’è l’organismo animale nella sua essenza? È un sistema organico che si conserva assimilando ciò che è esterno a esso. Esso muta l’esterno in interno in continuazione e come unico fine di questo processo ha l’autoconservazione: una vita di appetiti che si soddisfa attraverso un sistema di organi. Quello che osserviamo dell’organismo animale nella sua vitalità non è il punto di unità della vita, ma solo la molteplicità degli organi. Il vivente non è libero di manifestare se stesso come singolo soggetto in opposizione ai suoi membri dispersi nella realtà esterna. Hegel individua in questo la manchevolezza fondamentale della bellezza nel regno animale: ciò che a noi è visibile del regno animale non è l’anima, ma la mera vita. L’animale è vivo solo in sé. Poiché l’interno rimane solo un interno, anche l’esterno appare solo come un esterno.
Nel corpo umano, invece, in ogni istante è evidente che l’uomo è un’unità animata, senziente (ad es. la pelle non è coperta da elementi vegetali senza vita). Ma, per quanto il corpo umano, a differenza di quello animale, lasci apparire all’esterno la sua vitalità, tuttavia in questa superficie si esprime ugualmente l’indigenza della natura (pelle che si stacca, tagli, rughe, pori, ecc.). L’anima, con la sua vita interna, non traspare attraverso l’intera realtà della forma corporea.
Persino il mondo spirituale e le sue manifestazioni, se considerati nella loro vitalità immediata, presentano un’insufficienza fondamentale. Prendiamo come esempio l’individuo. Nella sua realtà vera è una singolarità generata da un centro spirituale. Tuttavia nella sua realtà immediata appare nella vita, nel fare e nel tralasciare, nei desideri, negli impulsi, solo frammentariamente. Il suo carattere, perciò, può essere conosciuto solo in base all’intera serie delle sue azioni. In questa serie il punto di unità concentrato non è visibile e afferrabile come centro che tutto abbraccia.
Con l’immediatezza del singolo, tuttavia, l’idea entra nell’esistenza reale. Ma con tale immediatezza essa è al contempo avvolta nell’intreccio con il mondo esterno, nella condizionatezza di circostanze esterne, in generale è esposta all’intera finitezza dell’apparenza. La singolarità immediata è dapprima un uno in sé raccolto, ma questo poi si delimita per lo stesso motivo negativamente contro ciò che è altro, e per il suo isolamento immediato, in cui ha solo un’esistenza condizionata, è costretto dalla potenza della totalità, che non è in lui reale, ad avere relazioni con ciò che è altro e a dipenderne nel modo più vario. L’immediatezza dell’esistenza appare come un sistema di rapporti necessari tra individui esteriormente autonomi, in cui ogni singolo gioca un ruolo strumentale al servizio di fini a lui estranei, oppure ha necessità come mezzo di ciò che è a lui esteriore. È questo il regno della non libertà in cui vive il singolo immediato.
Il singolo animale dipende immediatamente da un determinato elemento e da un ambiente naturale, da cui è determinato tutto il suo modo di vita. Solo condizioni esteriori decidono del suo aspetto, della bellezza o delle insufficienze del suo corpo. Analoga dipendenza dalle forze naturali esterne si riscontra nell’organismo umano. Anche gli interessi spirituali, presi nella loro realtà immediata palesano tutta la prosa della vita. L’uomo singolo, per mantenersi nella sua singolarità, deve continuamente ingaggiare con altri rapporti strumentali, diventando esso stesso mezzo. L’individuo, come appare in questo mondo della prosa quotidiana, si definisce solo in base a ciò che è altro da sé. Perciò in questa sfera l’individuo non ha l’aspetto della vitalità né ha libertà autonoma e totale, che sono alla base del concetto di bellezza. La conclusione suona come condanna (non morale, ma ontologica) dell’immediatezza:
Questa è la prosa del mondo quale appare alla propria e all’altrui coscienza, un mondo fatto di finitezza e di mutamenti, inviluppato nel relativo, oppresso dalla necessità, alla quale il singolo non è in grado di sottrarsi. Infatti ogni vivente isolato rimane nella contraddizione di essere a sé per se stesso come questo conchiuso uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è altro, mentre la lotta per la soluzione della contraddizione non va oltre il tentativo e la continuità di questa guerra permanente. (E, 200)
Oltre che trovarsi in uno stato di dipendenza, il singolo immediato è anche privo di autonomia, a causa della sua limitatezza e particolarità. Il singolo animale appartiene a una determinata specie e non può andare oltre tali limiti. Anche l’organismo umano si scinde in differenze di razze, con la loro gradazione di forme. Vi sono poi le proprietà accidentali, le singolarità di carattere e di temperamento specifiche. Povertà, angustia, ira, freddezza, indifferenza, l’agitazione delle passioni, l’imprigionarsi in fini unilaterali, l’intera finitezza dell’esistenza umana in generale produce il fissarsi di innumerevoli espressioni e fisionomie accidentali.
Vi sono fisionomie sconvolte, in cui tutte le passioni hanno lasciato l’impronta della loro distruttiva tempesta; altre hanno solo l’aspetto dell’interna povertà e superficialità; altre ancora sono così particolari che il tipo universale delle forme è quasi interamente scomparso. L’accidentalità delle forme non ha mai fine. E i fanciulli sono in generale i più belli proprio perché in essi tutte le particolarità sono assopite come in un germe tacitamente chiuso, giacché nessuna limitata passione agita il loro petto, nessuno dei molteplici interessi umani è ancora riuscito ad imprimersi saldamente nei loro tratti cangianti con l’espressione del proprio urgere. Ma in questa innocenza, benché il fanciullo sembri possedere nella sua vivacità la possibilità di tutto, mancano però anche i tratti più profondi dello spirito. (E, 201-202)
Questa è la finitezza presa come tale, la finitezza che non corrisponde al suo concetto, e in questa non corrispondenza palesa appunto la propria finitezza (e non bellezza). La finitezza, secondo il suo concetto, ha la sua verità nell’infinito e tale condizione la manifesta con la sua inquietudine a essere che la spinge sempre incessantemente a nascere e tramontare. Il concetto è l’infinito e libero in sé, mentre la vita naturale si esaurisce nella sensazione, che rimane in sé, incapace di compenetrare totalmente l’intera realtà. Perciò lo spirito non può ritrovare, nella finitezza dell’esistenza e nella limitatezza ed esteriore necessità di questa, le ragioni e le manifestazioni della sua vera libertà, per cui è costretto a realizzare il bisogno di questa libertà su un terreno diverso, più alto. Questo terreno è l’arte, la cui realtà è l’ideale.
La necessità del bello artistico deriva quindi dalle insufficienze della realtà immediata, e il suo compito deve essere così stabilito: esso è chiamato a manifestare anche esternamente nella loro libertà l’apparenza della vitalità e soprattutto della animazione spirituale e a rendere l’esteriore conforme al suo concetto. Solo in tal caso il vero è tratto fuori dalla sua ambientazione temporale, dal suo disperdersi nelle serie delle finitezze, avendo al contempo acquistato un’apparenza esterna, da cui traspare non più l’indigenza della natura e della prosa, ma un’esistenza degna della verità, esistenza che ora anche per parte sua se ne sta in libera autonomia, perché ha la sua determinazione in se stessa e non la trova posta in sé da ciò che è altro. (E, 203)
Il concetto e il pensiero speculativo
Nell’Enciclopedia Hegel definisce il concetto come la forma universale della riflessione e gli attribuisce un senso speculativo. La riflessione ha come suo contenuto, che reca alla coscienza, i pensieri in quanto tali. La religione, il diritto, la moralità sono senza alcun dubbio attività specificamente umane, cioè attività che appartengono all’uomo in quanto essere pensante. Ora nei fatti religiosi, giuridici o morali, che siano sentimento, fede o rappresentazione il pensiero entra naturalmente in gioco. E tuttavia, una cosa è avere sentimenti e rappresentazioni determinati e compenetrati dal pensiero, un’altra avere pensieri sopra di essi. Solo i pensieri, prodotti dalla riflessione sopra quei modi della coscienza, sono ciò che si intende per riflessione, ragionamento e, in ultima analisi, per filosofia. La riflessione, insomma, trasforma i sentimenti, le rappresentazioni, le credenze in pensieri. E il pensiero è ciò che la filosofia rivendica come forma peculiare delle sue operazioni.
Ora, per Hegel, il pensiero, nella sua interezza, va considerato come l’unità di tre momenti.
- Il pensiero come intelletto, rivolto alle determinazioni separate delle cose e alla differenza estrinseca di una determinazione dall’altra. L’astrazione è il limite dell’intelletto, il considerare nell’uomo, razionalità e sensibilità come due determinazioni a sé stanti che si compongono estrinsecamente. Ogni determinazione, per l’intelletto sussiste in quanto tale.
- Il pensiero come dialettica, che è il sopprimersi delle determinazioni finite e il loro passaggio nelle determinazioni opposte. Se l’intellettuale fissa ogni determinazione nella sua finitezza, il dialettico ne coglie il trapassare, il superarsi nella determinazione opposta: è il movimento del divenire che affligge ogni finitezza.
- Il pensiero speculativo, che concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione.
Sul contenuto determinato della negazione dialettica e sul carattere concreto del razionale speculativo, Hegel scrive nel § 82 dell’Enciclopedia:
La dialettica ha un risultato positivo, perché essa ha un contenuto determinato, o perché il suo verace risultato non è il vuoto e astratto niente, ma è la negazione di certe determinazioni, le quali sono contenute nel risultato appunto perché questo non è un niente immediato, ma è un risultato. Questo razionale è perciò, quantunque sia un qualcosa di pensato e di astratto, insieme qualcosa di concreto, perché non è unità semplice e formale, ma unità di determinazioni diverse. Perciò la filosofia non ha punto da fare con mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti. /G. F. W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari, 1975, p. 97)
Il concetto come concreto è essenzialmente in se stesso un’unità di caratteri distinti, è totalità, giacché ognuno dei momenti che lo costituiscono è posto con esso in unità inseparata. La dottrina del concetto si divide in: dottrina del concetto soggettivo o formale, dottrina del concetto come oggettività e dottrina dell’idea o unità del concetto e dell’oggettività. In tal modo, i suoi momenti sono l’universalità, la particolarità e la singolarità.
Anche se il concetto è l’assolutamente concreto, si può per altri versi dire che esso è qualcosa di astratto e questo in due sensi: innanzitutto perché il suo elemento è il pensiero in universale e non già il concreto sensibile, poi perché il concetto non è ancora l’idea. Il concetto è ancora formale, non perché debba avere o ricevere un contenuto diverso da se stesso (il concetto è ogni determinatezza), ma perché tale contenuto è solo assunto nella sua universalità e non anche nella sua esistenza. Ciò che si suole chiamare concetti o concetti determinati (uomo, casa, animale, ecc.) sono semplici determinazioni e rappresentazioni astratte, le quali astrazioni prendono dal concetto solo il momento dell’universalità e lasciano cadere la particolarità e la singolarità.
Il secondo momento del concetto è l’oggettività, momento in cui il concetto si determina come immediatezza, come oggetto. E l’oggetto è, per Hegel, la realizzazione del concetto, quindi oggetto non è una mera cosa esistente o alcunché di reale, ma qualcosa di compiuto in sé. È quindi il concetto in quanto si pone come esistente, togliendosi e negandosi in quanto universalità: è la realtà del concetto, ma nella forma di un’autonoma particolarizzazione e reale differenziazione di tutti i momenti che nel concetto soggettivo erano in unità ideale.
Dobbiamo cogliere in queste concezioni di Hegel non delle astratte elucubrazioni, ma il proporsi di una rivoluzione nel tradizionale modo di pensare. Nel modo usuale di pensare, gli enti che incontriamo nella realtà sono mere esistenze, enti dati nella loro semplice presenza: questa cattedra, questa lavagna, questo paesaggio, ecc. Questa è l’immediatezza di cui Hegel parla, la semplice empiria, il mondo quotidiano. Tali enti, imprigionati nella loro particolarità, consegnati al qui e all’ora, non hanno in sé la propria ragion d’essere. A essi si contrappone specularmente un’altra astrazione, la rappresentazione soggettiva di tali “oggetti”, gli oggetti dati in generale e non più in particolare o nella determinatezza, il concetto nel senso tradizionale del termine, appunto.
L’idea è l’unità di concetto e oggettività ed è identica al reale. Tutto il reale ha due lati, il vero concetto e la realtà di questo concetto, perciò il vero ideale è l’unicamente reale. La realtà è il contenuto della filosofia ed è ben diverso da ciò che nella vita ordinaria si chiama realtà, cioè qualsiasi esistenza difettiva e passeggera.
Bellezza e parvenza
Ora l’idea è reale in modi diversi, nella rappresentazione e nel sentimento (religione), nel concetto (filosofia) o nel sensibile (arte). L’idea attuata nel sensibile si chiama bellezza o ideale. Nell’Enciclopedia c’è una definizione di bellezza assolutamente fondamentale:
La bellezza è espressione dell’idea così trasfigurata mediante lo spirito formatore, che la forma non mostra altro in lei fuori dell’idea. (Enciclopedia, cit. § 556)
Bella è la forma in cui non ci sono intrusioni, particolarità superflue. Il sensibile è bello quando rinuncia al suo puro essere per essere manifestazione dell’idea, quando è un sensibile spiritualizzato, quando non è il sensibile preso nella sua immediatezza. Quando il sensibile non è la mera finitezza, la finitezza senza verità.
Abbiamo visto che il vero ha esistenza e verità solo nel suo dispiegarsi a realtà esterna, ma esistenza e verità non stanno fra loro in un rapporto di reciproca esteriorità, anzi, sono così strettamente unite che in ognuna delle parti in cui l’idea si dispiega traspare l’unità. Per illustrare questa unità che si manifesta in ogni parte, Hegel ricorre a un’analogia di grande efficacia: c’è un organo del corpo umano in cui l’anima si dà a vedere come tale, l’occhio. L’anima si concentra nell’occhio, non solo vede per mezzo suo, ma è anche vista. Ebbene, l’arte trasforma ogni forma, in tutti i punti della superficie visibile, in occhio e porta ad apparire lo spirito. Mi sembra che questo sia uno degli elogi più profondi mai fatti all’arte: la forma artistica è come un Argo dai mille occhi, che in ogni sua parte mostra l’anima interna e la spiritualità. L’arte anima in ogni punto la forma.
L’arte, come sappiamo, manifesta come vera l‘esistenza nella sua apparenza, cioè nella sua adeguatezza al contenuto. Ora, dal momento che riconduce a questa armonia con il suo vero concetto ciò che nell’esistenza semplicemente data è contaminato dall’accidentalità e dall’esteriorità, l’arte getta da parte tutto ciò che nell’apparenza non corrisponde al concetto e, per mezzo di questa purificazione, crea l’ideale. La forma ideale è la forma massimamente reale: la vera realtà, infatti, non è né l’esistenza immediata, presa nella sua accidentalità e mera finitezza, né l’astrazione dell’empiria in concetti generali. La realtà è l’esteriorità conforme al suo concetto. Si tratta di
mettere da parte quel che è il lato solo naturale dell’esistenza indigente, peli, pori, cicatrici, macchie della pelle, e cogliere e riprodurre il soggetto nel suo carattere universale e nella sua peculiarità permanente. È cosa completamente diversa se egli (l’artista) si limita a imitare in generale la fisionomia proprio come gli sta dinanzi in quiete nella sua superficie e forma esterna, oppure se riesce a render manifesti i veri tratti che sono l’espressione dell’anima più intima del soggetto. (E, 207)
L’arte, secondo Hegel, elimina il superfluo, ciò che non appartiene al concetto. Il mettere da parte le accidentalità di un viso non comporta che una fisionomia peculiare venga dispersa nell’astrazione del mero tipo umano. Il grande artista sa produrre il soggetto e nella sua universalità e nella sua peculiarità, ma non la peculiarità transeunte e superflua, ma la sua peculiarità permanente. Ricordiamo che per Aristotele l’artista è colui che nella sua opera mette tutto ciò che sa: significa, in termini diversi, che l’artista è colui che sa produrre la forma perfettamente adeguata (questa è la techne) al concetto.
Se il soggetto è l’amore materno, l’impiego di visi quotidiani (che per altri versi può essere adeguato, se non addirittura necessario) è, secondo Hegel, controproducente. Le Madonne di Raffaello, invece, ci mostrano forme del viso, delle guance, degli occhi, del naso, della bocca, che sono già conformi all’amore materno, beato, lieto e al contempo pio e umile. Tutte le donne potrebbero essere capaci di tale sentimento (non dipende certo dalla fisionomia, questo è evidente, e Hegel non è certo così stupido o lombrosiano ante litteram da legare nell’esistenza fisionomia e carattere), ma non ogni fisionomia è adeguata alla piena espressione di questa profondità d’animo. Per manifestare l’amore materno nel suo concetto, una fisionomia caratterizzata è superflua, anzi, le peculiarità (essenziali alla persona, per altri rispetti, ma accidentali per l’amore materno) giocherebbero il ruolo di intrusioni e renderebbero la rappresentazione non conforme al concetto.
L’arte purifica, rende vera e reale l’esistenza, il suo operare consiste sempre nella capacità di manifestare adeguatamente un contenuto. E togliere il superfluo è cosa ben diversa dal procedimento di astrazione. Seguendo l’esempio di Hegel, non abbiamo bisogno di parole o di tante spiegazioni per capirlo, basta guardare. Nessuno, che non sia completamente ottuso all’arte, può scambiare una Madonna di Raffaello per un’allegoria dell’amore materno, nessuno può scambiare quella figura, pur così perfetta e senza riscontro nell’esistenza quotidiana, per un’astrazione. Ecco, questo è l’ideale, il bello artistico, questa è la singolarità concreta, miracolosa unione di universalità e di particolarità. In ogni tratto brilla l’anima, la vitalità e l’amore materno si manifesta nella pienezza del suo concetto.
L’ideale, nel suo concetto ampio, non è solo il bello artistico della forma classica, anche se è in tale forma che propriamente si manifesta, ma il bello artistico in quanto tale e il bello artistico è l’apparire sensibile dell’idea in modo tale che la configurazione sia conforme al concetto. In questo senso, paradossalmente, nell’ideale può trovar posto anche il brutto (e lo vedremo). L’ideale artistico riconduce l’esistenza esteriore nello spirituale, cosicché l’apparenza esterna diviene rivelazione di questo. Ora, la manifestazione sensibile dello spirituale si dà come individualità vivente.
L’ideale in conseguenza è la realtà richiamata dalla distesa delle singolarità e accidentalità, in quanto che l’interno, in questa esteriorità elevata contro l’universalità, appare esso stesso come individualità vivente. (E, 208)
Il sostanziale del contenuto, per manifestarsi nel sensibile, non può evitare di darsi un’esistenza determinata, un’individualità, la quale, liberatasi dalla semplice finitezza e condizionatezza, giunge a un libero accordo con l’interno dell’anima. Da ciò si coglie come l’individualità vivente non sia né l’esistenza immediata e accidentale né la sua morta stilizzazione. Come scrive Schiller nella poesia L’ideale e la Vita, contro la realtà con i suoi dolori e le sue lotte, l’ideale ha la bellezza di un calmo paese delle ombre. L’arte è parvenza, di contro all’esistenza effettiva, ma, e lo abbiamo più volte ripetuto, la parvenza per Hegel è essenziale all’essenza di una cosa. L’arte è l’ideale, di contro all’esistenza immediata, ma l’ideale non solo non si oppone alla realtà, ma ne è la forma vera. L’ideale è il calmo paese delle ombre, in quanto, da un lato, le sue forme sono “morte” all’esistenza immediata, distaccate dai bisogni dell’esistenza naturale, liberate da ogni deformazione inerente alla finitezza dell’apparenza, ma dall’altro esse sono forme sensibili. Solo con ciò
l’ideale se ne sta unito con se stesso nell’esteriore, liberamente poggiando su di sé, come sensibilmente in sé beato, di se stesso gioendo e godendo. Il suono di questa beatitudine echeggia per tutta l’apparenza dell’ideale, giacché per quanto la forma esterna possa estendersi, l’anima dell’ideale non vi perde mai se stessa. E solo per esso è veramente bello, in quanto il bello è solo come unità totale, ma soggettiva, per cui il soggetto dell’ideale, dalla dispersione di altre individualità e dei loro fini e sforzi ritornando in se stesso, deve apparire raccolto in una superiore totalità e autonomia. (E, 209)
E allora, il tratto fondamentale dell’ideale è la serenità calma e beata. Dinanzi a noi la forma artistica ideale sta come un dio beato. Questo è il tratto peculiare dell’ideale e noi lo ritroviamo specialmente nelle opere d’arte antiche. La forza dell’individualità, il trionfo della libertà concreta in sé concentrata non è visibile solo nel caso di un soddisfacimento ottenuto senza lotta, ma anche quando fratture profonde lacerano il soggetto in se stesso e in tutta la sua esistenza. L’eroe tragico che soccombe al destino ha, pur in questa catastrofe, la calma serenità del fato e Hegel dice che ci fa esclamare “è così!”. L’uomo, soggiogato dal fato, può perdere la vita, ma non la libertà. Nell’arte romantica, naturalmente la lacerazione e la dissonanza dell’interno vanno oltre, le opposizioni configurate si approfondiscono, la lacerazione può divenire duratura. Nel rappresentare la Passione, la pittura può ricorrere alle espressioni di scherno nei tratti della soldataglia, all’orrenda deformazione della grinta del loro volto. Nel descrivere il vizio, il peccaminoso e il male, la serenità dell’ideale si perde e subentra addirittura il brutto. Tuttavia, anche nell’arte romantica possono venir rappresentati l’intimità spirituale, il gioire nella sottomissione, la beatitudine nel dolore. Un sorridere attraverso le lacrime. Anche qui è la conformità al concetto ciò che detta la configurazione.