Le teorie dei colori di Goethe, Kandinsky e Klee – 1

Presento qui, diviso in 5 parti e senza alcuna rielaborazione, un saggio da me scritto circa 40 anni fa, la mia tesi di Laurea in Estetica con il prof. Paolo Gambazzi (Università degli studi di Padova, sede di Verona), intitolata Le teorie dei colori di Goethe, Kandinsky e Klee.

Per i testi più citati ho usato le seguenti abbreviazioni, seguite dalla virgola e direttamente dal numero indicante le pagine (Per la Teoria dei colori il numero che compare tra virgolette semplici indica il paragrafo):

TC – Johann Wolfgang von Goethe, Teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano, 1979

Op (sempre seguito dal numero indicante il volume) – Johann Wolfgang von Goethe, Opere, 5 voll., Sansoni, Firenze, 1961

TS – Wassily Kandinsky, Tutti gli scritti, 2 voll., Feltrinelli, Milano, 1976-1979

TFF (sempre seguito dal numero indicante il volume) – Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, 2 voll., Feltrinelli, Milano, 1979

INTRODUZIONE

Nell’ambito della concezione fisicalistica della realtà il colore costituisce, senza alcun dubbio, uno degli esempi più classici di ciò che si intende per qualità secondarie o soggettive: esso rappresenterebbe non un dato del mondo esterno, ma solamente una nostra sensazione. La causa di questo misconoscimento si può rintracciare nell’indisponibilità del colore a sottostare alla pratica obiettivante della misurazione, cioè a quell’insostituibile operazione che, secondo la concezione meccanicistico-quantitativa della natura, rende possibile una trattazione scientifica della realtà.

Gli innegabili risultati conseguiti attraverso il depauperamento qualitativo della realtà (operazione non solo ammessa, ma necessaria per affrontare un certo tipo di problemi conoscitivi) portano a dimenticare il fatto che esso riveste un carattere meramente metodologico.

L’abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo, un metodo che deve servire a migliorare mediante previsioni scientifiche in progressus in infinitum, le previsioni grezze, le uniche possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo-della-vita; l’abito poté far sì che il senso proprio del metodo, delle formule, delle teorie rimanesse incomprensibile e che durante l’elaborazione ingenua del metodo non venisse mai compreso. (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1975, p. 80-81)

Il mondo quantitativo della scienza diventa il mondo reale, l’unico mondo oggettivo nei cui confronti il nostro mondo qualitativo e concreto scade a pura parvenza.

Questa concezione implica non solo una sopravvalutazione del quantitativo, ma nel medesimo tempo una svalutazione di tutto quanto con esso non si identifica, dunque una svalutazione al limite totale e assoluta, anche dell’uomo. […] Ogni tentativo di fare della scienza moderna una concezione del mondo conduce necessariamente a un soffocamento dell’uomo o a una specie di schizofrenia (nel senso corrente del termine): la nostra concezione del mondo è scientifica, ovvero meccanicistico-materialistica, mentre la nostra vita è tutto l’opposto. (Walter Heitler, Causalità e teleologia nelle scienze della natura, Boringhieri, Torino, 1967, p. 55-56)

Del resto, la svalutazione della realtà scientifica è una caratteristica ricorrente nella cultura occidentale.

Il risentimento contro corpo, sensibilità e apparenza (fenomeno) è infatti largamente comune alle due radici della nostra tradizione di pensiero, quella greca e quella cristiana. Nella prima, […] viene stabilita la distanza (sia teoretica che etica) che il corpo e la sensibilità rappresentano per l’uomo. […] Il cristianesimo ha ribadito e approfondito l’aspetto etico-religioso di questa inimicizia per il corpo e la sensibilità. […] Dal punto di vista conoscitivo-scientifico è invece con la nascita della scienza moderna (e la sua identificazione del reale con il metodo della sua matematizzazione) che si compie un ulteriore passo decisivo verso la fissazione della superiorità della Ragione sull’Estetica. Così scienza e apparenza sensibile delle cose si sono divaricate fino a porre il problema di salvare i fenomeni, e a scolorire il mondo e consegnare colori, suoni, odori, sensazioni tattili e gustative (e la bellezza) alla pura soggettività e alla dimensione delle qualità secondarie, così come la natura e la materia ai geometri. (Paolo Gambazzi, Sensibilità, Immaginazione e Bellezza. Introduzione alla dimensione estetica nelle tre Critiche di Kant, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 1981, p. 6)

Ma il mondo in sé è davvero più reale del mondo fenomenico? Se i nostri sensi sono una lente deformante nel rapporto uomo-mondo, perché non lo dovrebbe essere anche il nostro intelletto? Non è forse il nostro risentimento contro i sensi ( di cui sarebbe interessante indagare l’origine) che ci porta a elaborare la perversa distinzione tra facoltà basse e servili (la sensibilità sede di tutti gli inganni) e facoltà nobili e direttive (lo spirito come illuminazione)?

Sappiamo come il recupero della dimensione estetica a momento di autenticità dell’uomo stia al centro di alcune concezioni filosofiche tuttora attivamente operanti nella nostra attuale realtà storica. Intendo riferirmi in modo particolare alle analisi del giovane Marx, in cui la sensibilità gioca un ruolo eminente nel processo di emancipazione dell’uomo e della società; alla fenomenologia di Husserl che, specialmente nella Crisi, conduce una radicale critica all’obiettivismo moderno e recupera il mondo-della-vita in tutta la sua pregnanza significativa per l’uomo; alla psicoanalisi freudiana che, pur nell’ambito di gravi aporie, ci fornisce un’immagine di uomo tutta centrata sulla corporalità; alla teoria critica di Marcuse, dove il riscatto della dimensione estetica dell’uomo è esplicitamente indicato come la condizione irrinunciabile per l’avvento di una realtà non repressiva.

Ma soprattutto mi riferisco a quel grandioso tentativo di Goethe di fornire i mezzi e le idee per una scienza qualitativa della natura.

Con la presente ricerca mi propongo di affrontare alcuni dei molti problemi connessi a questo tentativo, ponendo al centro dell’attenzione uno dei più importanti lavori scientifici di Goethe, la Teoria dei colori. È in quest’opera che il colore, la più classica delle qualità soggettive, diventa oggetto di indagine “scientifica”, pur conservando tutte le sue specifiche caratteristiche fenomeniche. Alla base vi è una radicale trasformazione dei concetti di esperienza e natura, emancipati dalla rigida formalizzazione cui il meccanicismo li aveva costretti.

Nei limiti del tema specifico del colore (ma anche con opportune e funzionali aperture ad altri campi di indagine) cercherò di cogliere i tratti caratteristici di questa trasformazione. Lo studio si articola in cinque capitoli, di cui do brevemente i concetti guida.

Il primo capitolo, molto generale e sintetico, mette a confronto da una parte meccanicismo e concezione fisicalistico-quantitativa di esperienza e natura e dall’altra romanticismo e concezioni idealistiche e qualitative. Galileo, Newton, Novalis e Schelling sono gli autori cui principalmente mi rifaccio. Accanto a questi prendo in considerazione anche Kant e Hegel, i quali, pur irriducibili allo schema meccanicismo-romanticismo, toccano tuttavia tematiche fondamentali per l’oggetto della presente ricerca. L’idea centrale del capitolo è quella che la concezione romantico-idealistica della natura, al di là di molti aspetti bizzarri e chiaramente legati a una particolare situazione storico-culturale, è portatrice di un concetto di realtà che, per la sua attenzione al lato qualitativo dell’uomo e della natura, è per molti versi più soddisfacente di quella meccanicistica.

Goethe, al quale sono dedicati due capitoli, pur non potendo essere definito romantico, sa trarre dal romanticismo, così come dalla filosofia di Kant e in particolare dalla Critica del giudizio, proprio quegli aspetti positivi che ho indicato appena sopra.

Il secondo capitolo è dedicato all’attività scientifica generale di Goethe (con esclusione della teoria dei colori) e ha lo scopo di evidenziare idee e risultati della scienza qualitativa del grande poeta. Il terzo capitolo è interamente dedicato alla parte didattica della Teoria dei colori, opera che esamino attentamente alla luce dei criteri che ho appena esposto. Ritengo la Farbenlehre un lavoro esemplare di scienza qualitativa e solo da questo punto di vista essa può essere discussa, escludendo quindi ogni confronto polemico con la teoria scientifica del colore.

Gli ultimi due capitoli prendono in esame, esclusivamente da un punto di vista filosofico-concettuale, alcuni aspetti della concezione della realtà di due grandi pittori del Novecento, Kandinsky e Klee, soffermandomi particolarmente sulle loro teorie dei colori. Perché due pittori? E perché Kandinsky e Klee?

Alla prima domanda può già rispondere l’oggetto della presente ricerca: la teoria dei colori è naturalmente legata alla pratica artistica della pittura (anche se non solo ad essa, come Goethe dimostra nella sua opera) e da essa può trarre importanti contributi. Parlare delle teorie dei colori di due pittori mi fornisce la possibilità di approfondire lo studio in una determinata direzione tra le molte altre. La scelta di Kandinsky e Klee, poi, non è casuale. Ambedue contestano una concezione materialistico-volgare della realtà e cercano le possibilità di un’esperienza qualitativa, eccedente la mera conoscenza meccanicistico-quantitativa della natura. Da questo punto di vista la loro problematica si situa nello stesso solco di quella goethiana, anche se diversi e peculiari ne sono i toni e gli argomenti.

La concezione della realtà di Kandinsky non rappresenta, secondo me, una risposta efficace al materialismo positivistico: il privilegio che il pittore accorda all’interiore e allo spirituale emargina per altra via proprio quella dimensione sensibile che per l’uomo è fondamentale. Nel capitolo dedicato al pittore russo, il quarto, metto in evidenza questa insufficienza teorica, sia per ciò che riguarda la sua teoria dei colori, che per altri aspetti quali l’astrazione e la sinestesia.

Il capitolo quinto, dedicato a Klee, ha lo scopo di discutere alcuni punti cruciali della concezione estetico-filosofica del pittore svizzero: la sua teoria della figurazione, alla luce della quale viene sviluppata un’originale e interessante teoria dei colori, costituisce un contributo essenziale all’elaborazione di una scienza qualitativa.

1 – Dalla logica del dominio all’ideale dell’armonia: natura ed esperienza nel meccanicismo e nel romanticismo

Premessa

Le tre teorie dei colori analizzate in questo saggio pongono, al di là della problematica specifica, una serie di questioni di carattere filosofico più generale, la cui preliminare indagine è necessaria per l’elaborazione di un discorso convincente da un punto di vista teorico. Scopo del capitolo è quello di mettere in evidenza alcuni di questi problemi. Trattandosi di una sezione introduttiva, l’esposizione ha una forma spesso schematica pur cercando di non compromettere con ciò le irrinunciabili esigenze di rigore e chiarezza.

Il fatto che la Farbenlehre di Goethe sia nata con lo scopo dichiarato (tra gli altri) di opporsi all’ottica di Newton e più in generale a tutta l’impostazione filosofica e scientifica del fisico inglese, e che Kandinsky e Klee abbiano elaborato le loro teorie con espliciti riferimenti sia a Goethe che al generale clima antiscientista dell’epoca, oltre che in stretta connessione con l’attività artistica, suggerisce già un preciso orientamento di lettura. Tutti e tre gli autori propongono, ciascuno con la propria originalità, una concezione qualitativa della natura e dell’esperienza che si oppone radicalmente a quella quantitativa sostenuta dalle scienze naturali. Da qui la necessità di cogliere il significato della polemica che il romanticismo (indirizzo al quale, perlomeno sul problema specifico, sia Goethe che Kandinsky e Klee possono essere variamente ricondotti) ha sollevato contro la filosofia della natura elaborata dal meccanicismo.

Riferendomi prevalentemente a Galileo e a Newton, protagonisti di prima grandezza della rivoluzione scientifica, comincio con il valutare la portata teorica dell’operazione di matematizzazione della natura e dell’instaurazione del dualismo tra qualità primarie e qualità secondarie. Faccio inoltre cenno alla polemica sulla teoria del colore tra Newton e Hooke, da cui provo a trarre utili indicazioni sui rapporti tra  pratica sperimentale e concettualizzazione teorica in Newton. L’elaborazione del concetto di campo da parte di Maxwell e la successiva rivoluzione nella fisica portata dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica demoliscono dall’interno la concezione meccanicistica del mondo (una certa filosofia della fisica, badiamo bene, non la fisica stessa, che, con opportune correzioni, prosegue sicura il suo cammino di comprensione della realtà). Uno scritto di Heisenberg su Goethe, è utile per valutare le conseguenze filosofiche di questa nuova impostazione direttamente inerenti all’oggetto del mio studio.

Riguardo a Kant, che con la Critica della Ragion Pura aveva fornito una compiuta teorizzazione filosofica della concezione galileo-newtoniana del mondo, valuto la novità della posizione espressa nella Critica del Giudizio, con la quale l’atteggiamento verso la natura si apre, anche se solo nella sfera soggettiva, a considerazioni sulla finalità e sulla bellezza incompatibili con il meccanicismo. Non a caso la Critica del Giudizio risulta un testo cruciale per la formazione del pensiero romantico sulla natura.

È proprio con il romanticismo che una teoria qualitativa e organicistica della natura trova un’entusiastica formulazione, e con Novalis e Schelling due fra i più interessanti esiti poetici e filosofici. Alcuni aspetti indubbiamente bizzarri della filosofia della natura di quest’ultimo non devono fornire il pretesto per una svalutazione globale del suo pensiero e della Naturphilosophie romantica in generale. In essa è attivamente operante la tendenza a riconquistare la perduta armonia e intimità tra uomo e natura, unita al perentorio rifiuto di una logica di puro dominio. Un concetto di esperienza eccedente la pura conoscenza concettuale si propone come organicamente collegato alla riconciliazione con la natura e la sensibilità.

Il capitolo termina con alcune considerazioni riguardanti l’ambigua posizione di Hegel nei confronti della filosofia della natura: egli oscilla infatti tra accoglienza del qualitativismo romantico e drastica marginalizzazione dell’importanza della natura per la vita dell’uomo.

La rimozione dell’animale: lo scacco della sensibilità nella filosofia delle scienze naturali

Il dualismo delle qualità e la matematizzazione della natura

Nel Dizionario di filosofia dell’Abbagnano, alla voce ‘Meccanicismo’ si trova la seguente definizione:

Una teoria meccanicistica della natura è quella che non ammette altra spiegazione possibile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio appartengano, se non quella che li considera come movimenti o combinazioni di movimenti di corpi nello spazio. (Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1960, p. 553-555)

Queste parole mettono bene in risalto la drastica riduzione a cui è sottoposta l’esperienza umana della natura: l’eliminazione da essa di tutto ciò che non è descrivibile in termini di movimento la sottrae alla sua dimensione concreta e la consegna a una condizione di estranea obiettività. Lo stesso autore prosegue affermando che il meccanicismo si è presentato per la prima volta come concezione filosofica con l’atomismo antico mentre, nel secolo XVII, si è proposto come “principio direttivo della ricerca scientifica”. In effetti, sul carattere meramente soggettivo delle qualità sensibili sembra esserci completa identità di vedute tra Democrito e Galileo, come i due seguenti famosi passi dimostrano:

Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore, verità gli atomi e il vuoto. (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., Laterza, Bari, 1969, p. 748 del vol. II (fr. Diels-Kranz n. 68.B.9 – Democrito).

Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, ecc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate e annichilate tutte queste qualità. (Galileo Galilei, Il Saggiatore, in Opere, 2 voll., Editrice Fulvio Rossi, Napoli, 1970, p. 456 del vol. I)

Il significato filosofico della secondarizzazione delle qualità sensibili che la nuova scienza ha operato è posto bene in evidenza da queste parole di Neri:

La distinzione base del metodo scientifico galileiano, tra le qualità che verranno dette “primarie” e le “secondarie” corrisponde alla distinzione tra un mondo reale, in sé sussistente, e un mondo di apparenze soggettive, ingenerate dal precedente. Così, la stessa distinzione equivale anche a quella tra una sensibilità condannata ad agitarsi in un mondo di ombre e una ragione (che ha il suo modello nel pensiero matematico) cui viene riconosciuta la facoltà di accedere (sia pure gradualmente) all’in-sé. (Guido Davide Neri, Prassi e conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 30)

Nella pagina successiva dello stesso saggio, parlando del dualismo riduttivistico della nuova scienza, Neri afferma:

È facile afferrare che la netta separazione di un in sé del nostro mondo sensibile costituisce uno dei punti di arrivo del metodo della nuova scienza galileiana, della sua polemica contro il procedere ingenuo di una filosofia della natura succube, a ogni passo, dell’accidentalità incontrollata dell’esperienza diretta. La nuova scienza nasce dalla coerente, intenzionale riduzione del sensibile a vantaggio di un metodo oggettivo e garante dell’oggettività. Se i sensi ci illudono, soltanto ricorrendo a una ratio come quella fornita dalle scienze matematiche potremo garantirci un accesso alla sfera della realtà.

Una lettura favorevole alla gnoseologia meccanicistica è quella di uno studioso di storia della scienza, Gianni Micheli, che sottolinea la centralità dell’operazione riduttiva del reale nella formazione della nuova mentalità scientifica:

Alla base della nuova filosofia del Seicento sta la dottrina della soggettività delle qualità sensibili …: occorreva, infatti, prima di tutto, riconoscere che il mondo concreto della sensibilità non era “reale”, che cioè non aveva alcun riscontro obiettivo. (G. Micheli, Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento, in Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Il Cinquecento. Il Seicento, vol. II, Garzanti, Milano, 1970, p. 427)

Attraverso l’esecuzione di tre operazioni distinte:

  • analisi degli elementi sensibili;
  • loro riduzione a entità materiali subsensibili;
  • interpretazione matematica sulla scorta del modello meccanico, (ibid. p. 428)

il fenomeno viene sottratto alla dimensione quotidiana dell’esperienza, considerato luogo illusorio, e ancorato a una realtà permanente, accessibile solo all’idealizzazione matematica. Come giustamente afferma Koyré:

… la scienza classica … ha sostituito al mondo del divenire e del mutamento quello dell’essere … (Alexandre Koyré, Studi newtoniani, Einaudi, Torino, 1972, p. 8-9)

La matematizzazione della natura, con la conseguente instaurazione del regno della quantità, viene considerata teoricamente come frutto di una complessa operazione di sincretismo culturale, per cui:

di fatto l’idealismo matematico di Platone si fuse in Galileo e nei suoi successori con la teoria atomica della materia, derivante da Democrito e da Epicuro, per eliminare la fisica qualitativa di Aristotele. (A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton. 1630-1720, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 75)

È su questo punto che si può cogliere la radicale trasformazione del concetto di esperienza che le scienze hanno prodotto. Infatti, le due novità derivanti dal rifiuto del naturalismo qualitativo aristotelico, cioè la distruzione del cosmo inteso come universo gerarchicamente ordinato e la geometrizzazione dello spazio (Alexandre Koyré, op. cit., p. 7), rendono inconcepibile qualunque proiezione antropomorfica nello studio della natura. Valore, armonia, bellezza, finalità ecc., diventano termini privi di significato oggettivo. Da notare come un atteggiamento che aveva decretato l’ostracismo a ogni intervento di cause finali nello studio della natura, non abbia saputo sfuggire alle complicazioni metafisiche della causa prima, risolte all’interno di una generica tendenza teistica concretizzatasi in varie e contrastanti posizioni: dall’interventista God Watchmaker di Newton al superfluo Dieu fainéant di Laplace. Su questo tema v. Alexandre Koyré, op. cit., p. 22-23. Con la nuova concezione:

si tende a operare non già una “traduzione” della realtà naturale e umana in concetti che ne riproducano la differenziazione qualitativa, bensì una “riduzione” di tale realtà a elementi univocamente determinati. (Gianni Micheli, op. cit., p. 411)

Il sacrificio della zona estetica dell’esperienza rende l’uomo estraneo alla natura e a se stesso in quanto essere naturale. Tutta l’esistenza umana, nella propria destinazione sensibile, diviene convenzionale, e in questo materialismo misantropo la natura non gioca altro ruolo che quello di strumento inerte da usare e dominare. Riferendosi alla concezione materialistica di Hobbes, Marx afferma:

La sensibilità perde il suo fiore e diventa l’astratta sensibilità del geometra. Il movimento fisico viene sacrificato al movimento meccanico o matematico, e la geometria è proclamata la scienza principale. Il materialismo diventa misantropo. Per poter vincere lo spirito misantropo e senza carne sul proprio terreno, il materialismo stesso deve mortificare la sua carne e diventare asceta. Esso si presenta come un fatto dell’intelletto, ma dell’intelletto sviluppa anche la logica spregiudicata. (Karl Marx-Friedrich Engels, La sacra famiglia, in Karl Marx-Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 179)

Ancora Marx afferma:

Il dire che una è la base della vita e un’altra è quella della scienza è sin dal principio una menzogna […]. La sensibilità deve costituire la base di ogni scienza. Questa è la scienza reale soltanto se procede dalla sensibilità nella sua duplice forma, tanto della coscienza sensibile quanto del bisogno sensibile: dunque soltanto se procede dalla natura. (Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1970, p. 121-122). Su questo argomento v. anche Guido Davide Neri, op. cit., p. 81-84.

Le parole di Koyré mostrano perfettamente le gravi conseguenze di questa scelta logocratica:

(La scienza moderna) realizzò tale unificazione (tra cielo e terra) sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita e delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo. […] Due mondi, cioè due verità. Oppure, assoluta inesistenza della verità. Questa la tragedia della mente moderna che “risolse l’enigma dell’universo” soltanto per sostituirlo con uno nuovo: l’enigma di se stessa. (Alexandre Koyré, op. cit., p. 26)

La concezione qualitativa del mondo che propone Goethe nasce proprio dal rifiuto di questa spaccatura e dal desiderio di portare l’uomo, nella totalità del suo essere, a un rapporto di piena intimità con la natura.

Brevi cenni sull’analisi quantitativa del reale in Newton: gli esperimenti sulla luce e il colore.

Dopo Galileo, è Newton che porta avanti con maggior coerenza e rigore il programma di matematizzazione della natura. Le sue ricerche sulla luce e il colore sono a questo proposito esemplari. In esse, qualunque spiegazione di carattere qualitativo viene respinta. Dai suoi notissimi esperimenti con il prisma, Newton elabora una teoria che, resa pubblica con la lettera al Segretario della Royal Society Henry Oldenburg nel 1672, definisce, con una certa enfasi, “la più singolare, se non la più importante che sia mai stata fatta nel campo delle leggi di natura”. (Da Correspondence of Isaac Newton, Cambridge Press University, 3 voll., (1959-1960-1961), vol. I, p. 82. Citato in Alexandre Koyré, op.cit., p. 43)

Un fascio di luce incidente su un prisma viene diffuso dando luogo a uno spettro di colori la cui forma oblunga, inattesa secondo le leggi della rifrazione comunemente ammesse, che prevedevano un’immagine circolare, crea notevole stupore allo scienziato inglese. È la scoperta della dispersione della luce durante la rifrazione, dalla quale ricava, in seguito a esatta misurazione degli angoli di rifrazione, la legge secondo la quale ogni colore è completamente individuato dal suo grado di rifrangibilità. La conclusione è che la luce bianca non è un elemento semplice, di cui i colori sono qualificazioni, ma una miscela di luci variamente colorate. La funzione del prisma è quella di un setaccio che separa i vari raggi.

Robert Hooke, stimato fisico sperimentale della Royal Society, reagisce vivacemente a questa teoria, ritenendola una mera ipotesi formulata solo in quanto meglio adattabile alla teoria corpuscolare della luce sostenuta da Newton. Secondo Hooke, la plausibilità della teoria sulla natura composta della luce bianca non è superiore a quella secondo la quale “nell’aria dei mantici debbano esistere tutti i suoni che si sentano poi uscire dalle canne dell’organo”. (A. Rupert Hall, op. cit., p. 241. Per una dettagliata discussione sulla polemica tra Newton e Hooke, v. A. Rupert Hall, op. cit., p. 234-249 e Alexandre Koyré, op. cit., p. 45-50). Contro l’ipotesi della separazione Hooke sostiene, assieme ad altri filosofi e scienziati meccanicisti, tra i quali Descartes e Huygens, la tesi della trasformazione qualitativa della luce attraverso il prisma, per cui la rifrazione non rileverebbe, ma creerebbe il colore. Huygens pubblicherà nel 1690 il Traité de la Lumière, dove formulerà, in alternativa alla teoria corpuscolare della luce sostenuta da Newton, l’ipotesi ondulatoria.

La principale differenza tra i due scienziati sta nella radicalità (non imitata da Hooke) dell’operazione riduttiva compiuta da Newton sul fenomeno colore. L’unica cosa che di esso rimane significativa è una proprietà matematica, l’angolo di rifrazione. Tutta l’attività sperimentale di Newton è indissolubilmente legata alla pratica della misurazione, grazie alla quale il fenomeno può essere trascritto in linguaggio matematico. Ben diverso è il modo di procedere di Hooke. Nella sua Micrographia, la luce e il colore mantengono la loro pregnanza fisica e pertanto, anche se inseriti nella prospettiva di una spiegazione meccanicistica, non riescono a sottrarsi a una trattazione sostanzialistica.

In conclusione del paragrafo è bene accennare a come, nella pratica sperimentale di Newton, ipotesi surrettiziamente introdotte si vengano a intrecciare sottilmente con la spiegazione matematica, e ciò in contrasto con il famoso proclama hypotheses non fingo dello Scholium Generale posto alla fine dei Principia Mathematica Philosophiae Naturalis. L’affermazione della natura corporea della luce, l’ipotesi dell’etere e degli atomi, quella dell’esistenza di cause non meccaniche e la sconcertante serie di domande retoriche che appesantiscono le Questioni aggiunte all’Ottica, sono parte non marginale della sua filosofia.

L’espressione ipotesi sembra dunque essere diventata per Newton, negli ultimi anni della sua vita, uno di quei termini singolari, come eresia, che non si applicano mai a se stessi ma solo agli altri. (Alexandre Koyré, op. cit., p. 57)

Dijksterhuis accusa Newton di malafede per le troppe ipotesi mascherate sotto la forma di domande contenute nelle Questioni aggiunte all’Ottica:

Si preferirebbe o una dogmatica sicurezza di sé, come quella di Descartes, oppure un’astensione completa da ogni spiegazione che non possa essere verificata per via sperimentale. (E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo dai Presocratici a Newton, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 648-649)

È l’emergere esitante ma inequivocabile di questa ridda di ipotesi dal rigoroso apparato matematico della sua teoria che lascia trasparire il carattere fortemente ideologico del meccanicismo di Newton, il suo essere, prima che un’analisi obiettiva dei fatti, una interpretazione filosofica del mondo.

Oltre il meccanicismo: analisi di un saggio di Heisenberg su Goethe

In Sguardi sul passato (1901-1913), riferendosi alle nuove scoperte sull’atomo, che allora si andavano facendo, Kandinsky si esprime con queste parole:

La disintegrazione dell’atomo fu per me come la disintegrazione del mondo. D’improvviso i muri più massicci crollarono. Tutto divenne incerto, malsicuro, mutevole […]. La scienza mi sembrava annientata. (TS2, 158)

In Dello Spirituale nell’arte (1912) Kandinsky conferma il suo fraintendimento in senso antimaterialistico della nuova scienza quando scrive

Troviamo anche scienziati di professione che mettono continuamente a prova la materia, […], e che infine mettono in dubbio la materia sulla quale ancora ieri si fondava tutto e su cui poggiava l’intero universo. La teoria degli elettroni, ossia dell’elettricità in movimento, […] è destinata a sostituire completamente la materia. (TS2, 81).

Sulla crisi dell’oggetto in campo artistico, v. Guido Ballo, Origini dell’astrattismo. 1885 – 1912, Electa, Milano, 1980, p. 7, dove si avvalora senza fondamento alcuno una lettura della teoria della relatività ristretta di Einstein come relativismo: è l’atteggiamento psicologico che accompagna la lettura spiritualistica dei nuovi concetti elaborati dalla fisica moderna, fatta da molti artisti, filosofi e scienziati, lettura che alla luce di un’analisi più approfondita appare totalmente insostenibile. V. Ugo Giacomini, Esame delle discussioni filosofiche e scientifiche sulla teoria della relatività, in Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. Il Novecento, vol. VI, Garzanti, Milano, 1972, p. 439 – 468. Nelle pagine 449 – 452 vi è una discussione sull’interpretazione spiritualistica della teoria della relatività sostenuta da Arthur Stanley Eddington, James Hopwood Jeans e Herbert Wildon Carr.

La crisi dei concetti di causalità e di oggetto fisico, che diventa definitiva con la formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg (1927) contribuisce a demolire il rigoroso determinismo proprio della scienza classica e con esso l’intera concezione meccanicistica. Già il concetto di campo (elaborato da Maxwell nei primi decenni della seconda metà del XIX secolo), inteso come strutturazione dello spazio in linee di forza indipendentemente dalla presenza della materia, aveva iniziato l’erosione della vecchia nozione newtoniana di spazio assoluto e isotropo. Per una discussione sui problemi filosofici sollevati dalla fisica contemporanea, oltre al citato articolo di Ugo Giacomini, v. Arrigo Pacchi, Materia, ISEDI, Milano, 1976, p. 100 – 106.

Ma, accanto a tutto ciò, si radicalizza la già operante tendenza all’astrazione matematica, che giunge ormai a livelli inauditi. Heisenberg parla di “continua evoluzione della scienza verso un dominio astratto della natura, sottratto alla viva intuizione“, rivelando così una sostanziale adesione alla generale impostazione filosofica di svalutazione della sensibilità propria della scienza galileo-newtoniana. (Werner Heisenberg, La dottrina dei colori di Goethe e quella di Newton alla luce della fisica moderna, in Werner Heisenberg, Mutamenti nelle basi della scienza, Boringhieri, Torino, 1960, p. 80 – 101. Cit., p. 81)

Lo spiritualismo metafisico di Kandinsky non può, perciò, trarre alimento alcuno dall’ideale matematico astratto della fisica quantistica e relativistica.

Dove invece la rivoluzione effettivamente avviene è nella riformulazione dei rapporti tra soggetto e oggetto e, quindi, nel prospettarsi di un nuovo concetto di esperienza che sconvolge la rigida e astratta istituzione da parte del razionalismo scientifico di due zone della realtà, soggettiva e oggettiva, totalmente eterogenee. Su questo argomento la posizione di Heisenberg è per noi particolarmente interessante, in quanto emerge da un confronto con la concezione della natura e dell’esperienza che, secondo il fisico, starebbe alla base della Teoria dei colori di Goethe.

Operando contro tutta una tradizione fatta di ostilità, di indifferenza o di benevola indulgenza da parte della scienza nei confronti della Farbenlehre di Goethe, Heisenberg non esita a riconoscere a essa piena dignità scientifica. Riservandomi di valutare le caratteristiche di questo “recupero” nel capitolo specificamente dedicato alla Teoria dei colori, passo invece a considerare i vari aspetti in cui si articola il tema in oggetto.

È possibile fissare quattro punti basilari:

  1. Riconoscimento della grossolanità della divisione della realtà nei due domini eterogenei del soggettivo e dell’oggettivo.

Nella scienza naturale dell’età moderna comincia assai presto la distinzione della realtà in una realtà obiettiva e una soggettiva. … Ma l’evoluzione della scienza della natura negli ultimi decenni ha mostrato che quella suddivisione del mondo in due campi rende assai grossolana la nostra immagine della realtà (Werner Heisenberg, op. cit., p. 90)

  1. Conseguente indeterminazione dei confini tra soggettivo e oggettivo e scoperta dell’inapplicabilità al mondo subatomico, non solo dei nostri concetti dell’intuizione immediata, ma anche delle proprietà oggettive geometriche.

Solo nel corso del tempo si riconobbe che i più piccoli elementi costitutivi, quali gli elettroni, se debbono spiegare le proprietà sensibili della materia in grande, non possono possedere anch’essi queste proprietà sensibili, poiché altrimenti la questione del fondamento di queste proprietà sarebbe bensì spostata, ma non risolta. … L’atomo con l’andar del tempo fu spogliato di tutte le qualità sensibili. Le sole proprietà che esso sembrò conservare per lungo tempo furono quelle geometriche: l’occupare spazio, l’essere situato in un certo luogo e dotato di un certo movimento. Ma lo sviluppo della fisica atomica moderna ha in un certo modo tolto agli ultimi elementi costitutivi inscindibili di tutte le sostanze anche queste proprietà, mostrandoci che il grado di applicabilità di tali concetti geometrici alle più piccole particelle materiali è dipendente dagli esperimenti che noi intraprendiamo su queste particelle. […] Mentre in origine lo scopo di ogni indagine scientifica era quello di descrivere possibilmente la natura così come essa sarebbe di per sé, vale a dire senza il nostro intervento e senza la nostra osservazione, ora noi comprendiamo che proprio questo scopo è irraggiungibile. (ibid. p. 96-97)

  1. Limitata estensione della spiegazione scientifica a una realtà che, lungi dal sussistere in un mitico in-sé, dipende nella sua individuazione dal tipo di domanda posto.

Il carattere più importante della fisica moderna consiste forse proprio in ciò, che essa ci chiarisce dove sono posti i limiti del nostro comportamento attivo di fronte alla natura.  … Nell’indagine della natura la maniera stessa di impostare i problemi e il metodo stesso con cui è compiuta l’indagine separano dall’insieme dei fenomeni un campo finito e chiuso in sé. (ibid. p. 96-98)

  1. Esistenza di sfere della realtà con pari dignità ontologica, compenetrantesi l’una nell’altra, pur nella loro autonomia.

Potremmo piuttosto pensare a una suddivisione in molte sfere che si compenetrano, distinte l’una dall’altra dalle domande che noi indirizziamo alla natura e dagli interventi che per osservarla ci concediamo. […] Quando Goethe dice che ciò che il fisico osserva con i suoi apparecchi non è più la natura, egli intende anche dire che ci sono in natura campi più vasti e più vivi, non accessibili a questo metodo scientifico. Effettivamente noi non abbiamo difficoltà a credere che la scienza, là dove si rivolge non più alla materia inanimata, ma alla materia viva, deve divenire sempre più prudente negli interventi che essa compie per studiare la natura.  … Il riconoscere la validità della fisica moderna non impedisce allo scienziato di seguire, nello studio della natura, anche la via tracciata da Goethe. (ibid. p. 99-100)

Con ciò, il metodo scientifico non ambisce più a essere paradigma esclusivo nell’investigazione dell’intera realtà. La scienza, rinunciando a esportare fuori dai propri confini l’aggressione al sensibile, rinuncia alla pretesa di essere l’unica conoscenza vera, ritagliandosi così un campo di esplicazione non imperialistico.

Il mondo della sensibilità e dei valori umani, prima espulso nel meramente soggettivo e ivi parcheggiato sotto la continua minaccia di annichilimento per superfluità, riacquista pieno valore ontologico. Uscendo dal confinamento di residuo inesplicato e inesplicabile cui l’avevano costretto le scienze classiche, questo mondo torna a essere, con piena legittimità, vivamente importante per l’uomo.

È bene comunque sottolineare che l’esperienza settorializzata del mondo che questo saggio di Heisenberg ci propone è decisamente lontana da quel rapporto organico con la realtà che, come vedremo, caratterizza l’attività di Naturforscher di Goethe, alimentandone l’esigenza a elaborare una teoria qualitativa della natura. Qui, la dimensione estetica non è alla radice della verità dell’uomo, ma si limita a una precaria coesistenza con la ben più agguerrita dimensione razionale. Se leggiamo con attenzione la metafora dell’alpinista presentataci da Heisenberg, ci accorgiamo come questa coesistenza sia destinata a trasformarsi in annessione del metodo intuitivo da parte di quello razionale.

Forse possiamo paragonare lo scienziato che abbandona il campo dell’intuizione viva per scoprire più vasti rapporti con l’alpinista che vuole scalare la più alta cima di una poderosa catena di montagne per abbracciare con lo sguardo, nel suo insieme, il paese sottostante. Anche l’alpinista deve abbandonare le fertili valli abitate dagli uomini. Quanto più egli sale tanto più vasto si apre il paesaggio al suo sguardo, e tanto più si rarefà la vita che lo circonda. Infine egli giunge in una limpida e abbagliante regione di nevi e di ghiacciai, in cui tutta la vita è spenta, in cui anch’egli non può respirare che con grande difficoltà. Di qui passa la via che conduce alla cima. Ma lassù, nei momenti in cui l’intero paese si distende sotto di lui in perfetta chiarezza, egli non è forse troppo lontano dalla sfera della vita. […] Possiamo essere sicuri che anche al poeta Goethe quest’ultima e purissima chiarezza  a cui mira questa scienza era pienamente familiare. (ibid. p. 101)

L’ideale di una Ragione ascetica, pura, contrapposta a una sensibilità greve e opaca è in queste parole fin troppo chiaramente rivelato.

A conclusione dell’argomento, è utile accennare brevemente alle implicazioni epistemologiche del principio di indeterminazione. La contaminazione dell’oggettivo da parte del soggettivo che questo principio postula, quando constata l’ineliminabilità del rumore generato dal processo di osservazione, se non consente inferenze idealistiche, nel senso di teorizzare un intervento costitutivo della realtà da parte del soggetto, ciò nondimeno chiude qualunque prospettiva al realismo scientifico classico. Neutralità, obiettività, totale trasparenza della realtà alle strategie conoscitive elaborate da un astratto soggetto razionale sono ormai ideali definitivamente obsoleti.

Bellezza e fili d’erba: eccedenze alla gnoseologia razionalistica di Kant

L’impoverimento dell’esperienza da un punto di vista estetico trova nell’opera di Kant un saldo fondamento filosofico. Come afferma Gambazzi in uno studio dedicato alla dimensione estetica nella filosofia kantiana,

l’impoverimento matematizzante del reale e dell’esperienza del reale (il reale definito dal metodo con cui esso è conosciuto nella scienza fisica) ha in Kant non solo valore di conseguenza (della giustificazione del fatto della scienza esistente e trionfante), ma anche valore costitutivo della sua filosofia: è da lì che deriva la necessità teorico-conoscitiva della divisione tra fenomeno e cosa in sé, e della scissione di forma e materia della percezione in qualità primarie (oggettive) e secondarie (soggettive), così come è da lì che deriva la “povertà” della sua Estetica in sede conoscitiva (ridotta alla determinazione delle proprietà spazio-temporali necessarie alla concezione galileo-newtoniana, e perciò a una formalità puramente sinottica e non sintetica. (Paolo Gambazzi, op. cit. p. 9 – 10)

L’orizzonte entro cui si esplica la problematica della Critica della Ragion Pura è quello di un’esperienza dogmatica e obiettivistica, mortificata nella sua riduzione alla pura conoscenza concettuale, e di una concezione della natura come regno della necessità e della spiegazione meccanicistica.

Nella Metacritica sul purismo della ragione Hamann rimproverava a Kant la purificazione della ragione da tre elementi: la tradizione, la sensibilità, il linguaggio. La mentalità critica equivaleva per lui al sentimento insano di voler scrutare il proprio cuore e il proprio stomaco. Esso colpiva a morte le magiche matrici da cui sorgono la vita e le individualità e costituiva la versione più temibile del razionalismo laico e mondano degli illuministi. (Augusto Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Bari, 1980, p. 223)

Nella Appendice alla Dialettica trascendentale, in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, 2 voll., Laterza, Bari, 1969, p. 503 – 543, sono trattati temi che avranno poi un più ampio sviluppo nella Critica del Giudizio. P. 533: L’uso puramente regolativo della spiegazione teleologica (nexus finalis) che si aggiunge solo alla spiegazione meccanicistica (nexus effectivus) (p. 533). La legittima ammissione di un intelletto intuitivo (intellectus archetypus) (p. 538). I difetti risultanti dal prendere l’idea di un Essere Supremo non come semplicemente regolativa, ma come costitutiva (ignava ratio e perversa ratio) (p. 534-536).

Il limite dell’esperienza possibile è da Kant chiaramente determinato dalla destinazione sensibile dell’uomo, dalla compromissione del suo intelletto con il corpo. Questa svalutazione della sensibilità in campo gnoseologico, tradizionale nella cultura occidentale, si appoggia, in campo etico-pratico, a un’altrettanto tradizionale rigorismo morale. Nella Critica della Ragion Pratica si sancisce in termini inequivocabili la totale eterogeneità di felicità e legge morale, di inclinazione sensibile e dovere.

La “natura” dell’uomo vive in sede di ragion pratica una scissione che traduce – senza alcuna mediazione (quale era lo schematismo nella Critica della Ragion Pura – il dualismo di sensibile e intelligibile. Qui l’opposizione è definitiva. La Critica della Ragion Pratica è – senza contraddizione in termini – la summa del dualismo sorto dalla tradizione religioso-ascetica (e in particolare protestante) dell’odio per il corpo e la sensibilità. (Paolo Gambazzi, op. cit., p. 188)

Nell’ambito di questa impostazione interviene con una duplice funzione la Critica del Giudizio (1790):

  1. mediare il radicale dualismo tra natura e libertà instaurato dalle due precedenti Critiche;
  2. riassorbire nella prospettiva criticistica tutti quei concetti che si erano proposti come residui irriducibili alla trattazione razionalistico-scientifica dell’esperienza.

Attraverso il giudizio estetico l’immaginazione si accorda liberamente e pariteticamente con l’intelletto, mentre con il giudizio teleologico la natura si apre a irrinunciabili considerazioni finalistiche. Non si tratta di una smentita alle precedenti conclusioni gnoseologiche, che rimangono tuttora valide e determinanti; il campo entro cui si svolge la problematica estetica e teleologica è quello del giudizio riflettente, per cui non si esce dalla forma puramente analogica del come se e dal carattere esclusivamente regolativo e non costitutivo dei principi applicati. Ma la forma del come se non impedisce a Kant, come sostiene Gambazzi, di avvicinarsi a un territorio precategoriale di esperienza che

da una parte, si riaggancia a uno spazio estetico […] e che, dall’altra, non a caso verrà cancellato, nella sua autonomia di esperienza e di valore da Hegel. (ibid. p. 12)

Ed è proprio l’autonomia con la quale i concetti di bellezza, sentimento, finalità, natura vivente e organica, ecc. vengono trattati, che costituisce una delle eredità più attuali del pensiero di Kant. Per la stretta connessione con l’oggetto di questa ricerca, mi soffermo brevemente su alcune caratteristiche del giudizio teleologico che, in Kant, si accompagna, nello studio della natura, alle spiegazioni rigorosamente meccanicistiche.

A differenza del giudizio estetico, che considera la finalità dell’oggetto senza fondarsi su alcun concetto dato dall’intelletto, e che quindi non contribuisce alla conoscenza dei suoi oggetti, dovendosi riportare solo alla critica del soggetto giudicante e delle sue facoltà conoscitive, il giudizio teleologico è “la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura, mediante l’intelletto e la ragione”. (Immaneul Kant, Critica del Giudizio, cit. p. 35). Il giudizio estetico, che ha per oggetto il bello e il sublime della natura e dell’arte, giudica la forma e non l’elemento materiale dell’oggetto. Per questo carattere formale della bellezza, colore e suono vengono confinati nella sfera del piacevole, anziché del bello.

Un semplice colore, per esempio il verde di un prato, un semplice suono […], come quello di un violino, in generale sono dichiarati belli per se stessi; sebbene entrambi mostrino di avere a fondamento la semplice materia della rappresentazione, cioè unicamente la sensazione, e perciò meritino di essere chiamati soltanto piacevoli. […] La qualità delle sensazioni non si può ammettere come concordante in tutti i soggetti, e la superiorità, riguardo al piacevole, di un colore sull’altro, o del suono di uno strumento musicale su quello di un altro, difficilmente si può ammettere che sia giudicata da ognuno allo stesso modo. (Immanuel Kant, Critica del Giudizio, 2 voll., Laterza, Bari, 1979, p. 67 -68)

Come già Descartes, che nella sua Diottrica aveva considerato il colore puro ornamento e indicato solo nel disegno l’elemento essenziale della pittura, così Kant afferma che

Nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, l’architettura, il giardinaggio, in quanto sono arti belle, l’essenziale è il disegno, in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma. I colori, che avvivano il disegno, appartengono all’attrattiva; possono bensì ravvivare l’oggetto per la sensazione, ma non farlo degno dell’intuizione, e del bello. (ibid. p. 69)

Il fondamento per una teleologia della natura è fornito dagli esseri organizzati, le cui proprietà sono inspiegabili da un punto di vista puramente meccanicistico e devono, quindi, essere comprese secondo un principio diverso.

È assolutamente certo che noi non possiamo imparare a conoscere sufficientemente, e tanto meno a spiegare gli esseri organizzati e la loro possibilità interna, secondo i principi puramente meccanicistici della natura; e questo è così certo che si potrebbe dire arditamente che è umanamente assurdo anche soltanto il concepire una simile impresa, o lo sperare che un giorno possa sorgere un Newton, che faccia comprendere sia pure la produzione di un filo d’erba per via di leggi naturali non ordinate da alcun intento. (ibid. p. 272) […] La forma interna di un semplice filo d’erba può dimostrare a sufficienza per la nostra umana facoltà di giudicare, che la sua origine è possibile soltanto secondo la regola dei fini (ibid, p. 247). […] assolutamente non vi è nessuna ragione umana […] che possa sperare di comprendere semplicemente secondo cause meccaniche la produzione sia pure di un filetto d’erba (ibid. p. 283)

Quindi, è a partire dal concetto di essere organizzato, insolubile aporia in una prospettiva meccanicistica, che Kant elabora idee che saranno poi centrali nella filosofia tedesca immediatamente successiva.

Una cosa, in quanto fine della natura, si costituisce come totalità organica, concetto che richiede l’anteriorità logica del tutto sulle parti: la cosa, in quanto fine, “deve determinare a priori tutto ciò che in essa dev’essere  contenuto” e le parti devono legarsi “a formare l’unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma“. A questi caratteri, comuni anche al prodotto artistico, va aggiunta la capacità di autoorganizzarsi: solo allora, un tale prodotto va chiamato fine della natura. (ibid. p. 241 – 244)

L’irriducibilità dell’essere organizzato all’essere puramente meccanico si deve alla presenza nel primo della forza formatrice accanto alla forza motrice. A tutto ciò, si deve aggiungere l’importante concetto di intelletto intuitivo, necessario per ammettere il principio della finalità della natura come principio del giudizio riflettente per il nostro intelletto. Mentre il nostro intelletto discorsivo (intellectus ectypus) richiede immagini e procede dall’universale analitico dei concetti al particolare dell’intuizione empirica data, l’intelletto intuitivo (intellectus archetypus) va invece dall’universale sintetico dell’intuizione di un tutto come tale al particolare inteso come parte di un tutto. (ibid. p. 278 – 284). In uno scritto del 1817, pubblicato in Morphologie I, 2 nel 1820 col titolo Anschauende Urteilskraft, Goethe usa il concetto di intellectus archetypus nell’intuizione di una natura sempre creante e per la partecipazione spirituale alle sue creazioni.

È vero che qui l’autore (Kant) sembra riferirsi a un intelletto divino; ma se, in campo morale, dobbiamo elevarci in una sfera superiore, e avvicinarci all’Essenza prima mediante la fede in Dio, la virtù e l’immortalità, altrettanto dovrebbe avvenire in campo intellettuale: che cioè, mediante l’intuizione di una natura sempre creante, ci si renda spiritualmente partecipi delle sue creazioni. (Johann Wolfgang Goethe, Giudizio intuitivo (Op5, 47 -48)

Nonostante tutto ciò, Kant non si stanca di ricordarci il carattere puramente regolativo del principio teleologico, e di come esso sia solo un “principio di più” da usare dove non bastano le leggi della causalità puramente meccanica. La Dialettica del giudizio teleologico si chiude con l’affermazione del diritto e del dovere di

spiegare meccanicamente, per quanto è in nostro potere […], tutti i prodotti e gli avvenimenti della natura, anche quelli che rivelano la più grande finalità; senza però perdere mai di vista che quelle cose che possiamo sottoporre all’investigazione della ragione soltanto sotto il concetto di scopo, infine, conformemente alla natura essenziale della nostra ragione, malgrado le cause meccaniche, debbano esser subordinate alla causalità secondo fini. (Immanuel Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 290)

Pur nei limiti del carattere formalistico e analogico in cui si muove, la Critica del Giudizio opera dunque importanti aperture che sono raccolte dalla successiva generazione romantica per essere svolte in tutte le loro implicazioni: l’individuazione dei limiti del meccanicismo di fronte alla natura come totalità vivente, apre la strada a una concezione dell’esperienza radicalmente nuova, basata sul recupero del mondo della qualità. La filosofia della natura romantica oltrepassa deliberatamente i prudenti confini stabiliti da Kant. Ciò, se spesso porta a un abuso del metodo analogico e a costruzioni decisamente mitiche difficilmente condivisibili, permette dall’altra parte la riappropriazione di quella zona estetica dell’uomo che il razionalismo aveva alienato.

La riconciliazione dell’uomo con la natura: luoghi dell’esperienza romantica

Interiorità, poesia e magia nei Frammenti di Novalis (Friedrich von Hardenberg)

La poesia è il reale, il reale veramente assoluto. Questo è il nocciolo della mia filosofia. Quanto più poetico, tanto più vero. (Novalis, Frammenti, Rizzoli, Milano, 1976, con una Introduzione di Enzo Paci) (fr. 1186)

Poesia e verità: in questa identificazione, centrale nel pensiero di Novalis, si esprime tutta la distanza dalla concezione normativa e dogmatica dell’esperienza come gnoseologia. Secondo il poeta, l’uomo deve impegnarsi nel mondo con la totalità del suo essere, totalità non frammentabile in astratte facoltà e soprattutto non riducibile alle espressioni dell’io cosciente, superficie di un mondo interiore molto più vasto e profondo, alla cui visitazione e appropriazione vanno dedicate le massime energie.

E Novalis si rammarica che “l’interiorità dell’uomo sia stata studiata finora così poco“, che non si siano cercate “altre energie nuove senza nome“, capaci di “congiungimenti meravigliosi e di miracolose generazioni” (fr. 455). Eppure il mondo interiore ci appartiene di più di quello esteriore, anche se si presenta con i connotati incerti del sogno (fr. 457). Anzi, soprattutto per questo. Il sogno svolge, infatti, un’importante funzione conoscitiva e produttiva, in quanto “ci istruisce in maniera singolare sulla facilità che ha la nostra anima di penetrare dentro ogni oggetto, di tramutarsi subito in ogni oggetto” (fr. 640). Perciò la vita deve diventare sogno (fr. 1724) e produrre sensazioni e stati d’animo indeterminati.

Le idee felici provengono da impressioni non perfettamente organizzate (fr. 684), dove si mantiene il “senso del tutto indistinto, la visione magica degli oggetti” (fr. 683). Sono i contorni incerti della visione onirica che fanno perdere alle cose la loro determinatezza, è lo sguardo da lontano che rende poetica ogni cosa, che la sottrae a ogni prosaica considerazione utilitaristica (fr. 1205). Ma, come afferma Béguin, questa ricerca interiore non è fine a se stessa e non approda a un soggettivismo puro, in quanto

Novalis […] vuole che l’uomo, possedendo il segreto dell’universo, che egli è andato a cercare nel sottofondo di se stesso, torni verso la vita e vi getti uno sguardo nuovo, ricco di tutte le sue scoperte. (Albert Béguin, L’anima romantica e il sogno, Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 279)

E questo nuovo sguardo il poeta lo dirige verso il proprio corpo e verso la natura e adopera il potere acquisito per sciogliere il loro stato di concrezioni isolate e stabilirvi una corrente vitale continua. Il corpo umano diventa un tempio (fr. 743), di cui ci si deve impadronire (fr. 186), animando i suoi organi, con spirito artistico, “il germe della vita che plasma se stessa” (fr. 1120). Il corpo, totalmente pervaso dal principio della volontà, assume un accentuato carattere mistico e si apre alla possibilità dell’uso rituale e commemorativo nel banchetto.

Nell’amicizia si mangia difatti del proprio amico o si vive di lui. È un tropo quello di sostituire il corpo allo spirito e, durante il pasto in memoria di un amico, di inghiottire a ogni boccone la sua carne e a ogni sorso il suo sangue, con fantasia ardita, ultrasensibile. Certo al gusto molle del nostro tempo ciò appare barbaro – ma chi li costringe a pensare subito al sangue e alla carne cruda e soggetta a putrefazione? […] sangue e carne sono proprio davvero tanto disgustosi e ignobili? […] chi sa quale simbolo sublime sia il sangue? Proprio il disgusto nelle parti organiche fa supporre che ci sia qualche cosa di molto sublime. Davanti a esse noi rabbrividiamo come davanti a spettri e, con un brivido infantile, intuiamo in quella strana mistura un mondo misterioso che potrebbe essere un vecchio conoscente. (fr. 1783)

Sia per quanto riguarda il pasto cannibalico che per le osservazioni sul disgusto come copertura di significati rimossi, questo frammento presenta delle interessantissime anticipazioni di tematiche psicoanalitiche. A questo proposito, per un’idea generale v. Jean Laplanche – J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, 1968; in particolare le voci cannibalico a p. 62-63 e formazione reattiva a p. 194-197. Enzo Paci, nella sua Introduzione a Novalis, op. cit., p. 26-28, nota come nel poeta vi siano interessanti anticipazioni della metafisica di Schopenhauer per il ruolo assegnato al principio della volontà. Cfr. anche la positiva concezione della malattia in Novalis (v. fr. 626, 630, 635, 1624, ecc.) con il concetto nietscheano di nevrosi della salute, in Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia (Tentativo di autocritica), Adelphi, Milano, 1979, p. 3-15.

In questo corpo sacralizzato si cela quell’oscuro sentimento della natura che appartiene al vero sperimentatore e che lo guida alla scoperta del fenomeno nascosto e decisivo (fr. 421). L’esperimento deve essere opera del “genio naturale, cioè della facoltà taumaturgica di colpire il significato della natura“, facoltà che appartiene all’artista che “dalla mistura strana e transitante dei fenomeni sa distinguere e sentire quelli importanti” (fr. 1406) e che possiede “un amore del tutto particolare e un’anima infantile insieme con l’intelletto più limpido e con i sensi più calmi” (fr. 1407). Il poeta, infatti, “comprende la natura meglio dello scienziato” (fr. 1222), in quanto sa usare la fantasia, che è “la facoltà di rendere plastico” (fr. 532), “il senso meraviglioso che può sostituire per noi tutti i sensi” (fr. 537). Perciò, “soltanto un artista può indovinare il senso della vita“. (fr. 773)

Corpo e spirito, uomo e natura si riconoscono attraverso sottili corrispondenze simboliche nella figura unificatrice del poeta, che, come il mistico, “rappresenta l’irrapresentabile, vede l’invisibile, sente il non sensibile” (fr. 1208). Mistico è anche il riferimento che Novalis fa alla matematica (fr. 1683), la quale “sta di casa in Oriente” perché in Europa “è degenerata a mera tecnica“. (fr. 1666)

È nell’età aurea del ricostituito rapporto con la natura che opera, nel suo pieno fascino, l’idealismo magico del poeta. Tutto è fiaba nell’animo dell’artista (fr. 18) e tutto è fiaba, misteriosa e incoerente, nella natura. “Il mondo della fiaba è il mondo esattamente opposto al mondo della verità e appunto perciò le somiglia tanto, quanto il caos somiglia alla creazione perfetta” (fr. 1258). E in questo mondo agisce il mago, con il suo potere di rianimare gli oggetti, di usarli arbitrariamente, sostenuto dalla fantasia e dalla saggezza perfetta del veggente (fr. 1754). Saggezza che deriva dall’ “applicazione del senso morale agli altri sensi”, cioè dalla moralizzazione dell’universo. (fr. 373)

L’identificazione novalisiana del sistema della morale con il sistema della natura (fr. 1720) è l’esito del recupero senza residui dei fondamentali luoghi estetici dell’esperienza, quale il corpo, la fantasia, il sentimento e si contrappone significativamente al radicale dualismo delle prime due Critiche kantiane. Giustamente Enzo Paci osserva che i frammenti di Novalis in generale rappresentano, da un punto di vista strettamente filosofico, una violazione continua delle leggi dell’intelletto (Enzo Paci, op. cit., p. 16-17). Violazione che mira al raggiungimento di una facoltà superiore, la kantiana ragione (Vernunft), e l’instaurazione della sua logica, la dialettica trascendentale. È grazie a questa logica superiore che Novalis scopre il mondo della cosa in-sé nel principio metafisico della volontà: essa è il paradiso dell’uomo (fr. 523), la forza che gli fa esclamare “purché si voglia, anche si può“. (fr. 521)

Come vedremo, la concezione della natura e dell’esperienza in Goethe sarà profondamente diversa, come diversi sono il Wilhelm Meister e l’Ofterdingen, tanto che si può dire con il Mittner che Heinrich fu concepito come un anti-Meister, “non educato alla realtà della vita, ma a una superiore vita magica; non all’azione, ma alla poesia.” (Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), vol. II, Einaudi, Torino, 1964, p. 776. V. anche le accuse che Novalis indirizza al Meister di Goethe, che finisce con “la sintesi delle antinomie perché è scritto dall’intelletto e per l’intelletto“. (fr. 36). Cfr. anche i fr. 1287 e 1289)

Goethe non indulgerà mai a suggestioni mistiche e non si lancerà mai in ardite costruzioni metafisiche come il giovane poeta, ma conserverà sempre il senso del concreto, la capacità di leggere l’universale nel particolare. Ciononostante, non avrebbe esitato a sostenere con Novalis “che un cuore che ama sazia la mente che aspira al sublime“. (fr. 1790)

Arte e natura nel romanticismo filosofico di Schelling

Se il romanticismo ammette una filosofia in senso tecnico, Schelling ne può essere considerato, se non l’unico, almeno il più coerente interprete per il significato universale che ha riconosciuto all’arte e per aver operato il riscatto della natura dalla condizione umiliante cui l’aveva condotta la speculazione fichtiana.

Le aspre critiche rivolte alla Naturphilosophie di Schelling, se hanno una giustificazione per ciò che riguarda la sua forma esteriore, ricca di arbitrarie deduzioni e di ardite e immaginifiche “costruzioni” (che d’altronde si sono continuamente modificate nello svolgimento del suo pensiero), rischiano, tuttavia, di travolgere anche gli aspetti genuinamente filosofici e le esigenze più reali che l’hanno ispirata. V. Nicola Badaloni, Filosofia della Natura, in Filosofia (a cura di Giulio Preti). Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, n. 14, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 162-163. Un giudizio molto severo sulle filosofie della natura romantiche (Hegel, Goethe, Schelling, Fichte, Schopenhauer accomunati nella stessa sorte) viste come “massi erratici” e come concezioni reazionarie viziate da proiezioni antropomorfiche e da metafore materne (emblematico il frammento goethiano sulla natura del 1780) si trova in Paolo Casini, Natura, Mondadori, Milano, 1979, p. 101-103. Giulio Preti, nella Presentazione a Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. VI-VII, parla di due strati della filosofia di Schellling, uno più appariscente, la “scorza” di carattere metafisico-dialettico, lirico e arbitrario, e un altro sottostante, in cui il filosofo si dimostra erede attivo e creativo della grande tradizione kantiana. Preti definisce fenomenologico il metodo di Schelling e ritiene che esso abbia raggiunto i suoi maggiori e interessanti risultati durante la fase esistenzialistica nella quale “lo Schelling si accorge di quel problema che sempre si pone di fronte a qualsiasi posizione idealistica: l’irrazionale“, p. XI.

Quelle schellinghiane sono esigenze nate da una approfondita meditazione della Critica del Giudizio, soprattutto per ciò che riguarda il concetto di natura come totalità vivente e di organismo come realtà irriducibile alla causalità puramente meccanica.

Un organismo come tale non è mai né causa né effetto di una cosa fuori di sé, e quindi non è cosa che possa essere compresa nel sistema del meccanicismo. […] In ogni altro oggetto le parti sono arbitrarie: esse esistono in quanto io divido; invece nell’essere organizzato esse sono reali, […]. Quindi, a fondamento di ogni organismo sta un concetto – poiché si ha concetto appunto là ove sussiste una relazione necessaria del tutto con le parti e delle parti con il tutto. […] non soltanto la sua (dell’organismo) forma, ma il suo essere stesso è conforme a scopi. (Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Introduzione alle idee per una filosofia della natura (1797, ried. 1803) in Id., L’empirismo filosofico e altri scritti, cit., p. 31-32)

L’immanenza del concetto nell’organismo sta alla base del riconoscimento dell’autonomia ontologica della natura, in antitesi alla sua produzione puramente idealistica proposta da Fichte. La concezione schellinghiana della natura deriva anche da una lettura della Critica del Giudizio fortemente orientata dalla problematica spinoziana del fondamento oltre che dalla metafisica organicistica e dinamicistica di Leibniz. A queste influenze si deve aggiungere il recupero della tradizione mistico-teosofica tedesca, in particolar modo Jakob Boehme e con essa di temi platonici e neoplatonici, quali l’anima del mondo (Weltseele). Su queste influenze vedi Nicolai Hartmann, Filosofia dell’idealismo tedesco, Mursia, Milano, 1972, p. 123. V. anche Giuseppe Semerari, Introduzione a Schelling, Laterza, Bari, 1971, p. 61 e p. 115.

Alla natura Schelling affida un ruolo costitutivo dell’idea di Assoluto, luogo dove Spirito conscio e inconscio si identificano. Dalla natura all’autocoscienza vi è un unico processo evolutivo, nel quale si fonda, non solo l’armonia tra il soggettivo e l’oggettivo, ma la stessa possibilità dell’esistenza autonoma della natura.

La Natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito la Natura invisibile. Qui dunque, nell’assoluta unità dello spirito in noi e della natura fuori di noi, si deve risolvere il problema come una natura sia possibile fuori di noi. (F.W.J. Schelling, op. cit., p. 47)

Con la concezione della natura come “preistoria” dell’autocoscienza, il filosofo tenta il recupero dell’inconscio, del preriflessivo, dell’esistente. V. Giuseppe Semerari, op. cit., p. 53. Sulla riflessione come malattia dello spirito v. queste parole di Schelling.

Non appena l’uomo si pone in opposizione con il mondo esterno […] è fatto il primo passo verso la filosofia. Con quella separazione ha inizio la riflessione; d’ora in poi egli separa ciò che la natura aveva unito per sempre, separa l’oggetto dall’intuizione, il concetto dall’immagine, e alla fine, facendosi oggetto a se stesso, separa sé da sé. (F.W.J. Schelling, op. cit., p. 3) […] (La filosofia) non accorda alla riflessione che un valore negativo. Parte da quella separazione originaria per tornare ad unire mediante la libertà ciò che nello spirito umano era originariamente unito secondo le necessità. (ibid. p.4)

L’identificazione di soggetto e oggetto, di coscienza teorica e coscienza pratica nell’Assoluto, sostenuta dalla filosofia dell’identità, apre il problema della sua possibilità e della sua attingibilità. Si tratta di mostrare come l’attività conoscitiva, caratterizzata dalla necessità delle determinazioni del soggetto da parte dell’oggetto (rappresentazioni), e l’attività pratica individuata dalla libertà delle determinazioni dell’oggetto da parte del soggetto (azioni), possono coincidere ed esplicarsi in un’unica attività.

Schelling trova nella creatività artistica la soluzione di questo problema e nel prodotto dell’arte la realizzazione di questa possibilità, assieme a un’illuminante analogia con l’organismo in quanto prodotto della natura.

Tanto l’organismo che l’opera d’arte mostrano, relativamente al loro puro contenuto, una nuova unità specifica fra necessità e libertà; ma esprimono questa unità in due direzioni diverse. La natura comincia incosciente e finisce cosciente; […] L’io, invece, nella sua artistica attività creatrice, comincia del tutto cosciente, ma finisce per trarre da sé un contenuto che poi, […] possiede un proprio essere obiettivo. (Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna. III: Il problema della conoscenza nei sistemi postkantiani, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 311)

Schelling coglie la fonte dell’opera d’arte nell’ambivalente figura del genio, il quale, ispirato nella sua attività dalla più alta “intenzione”, dà vita a un prodotto che è inspiegabile mediante l’intenzione stessa. Schelling, in pieno accordo con il gusto romantico, privilegia l’artista sullo spettatore. V. Giuseppe Semerari, op. cit., p. 107. Cfr. il privilegio accordato da Kant allo spettatore, al gusto che deve regolare il genio. V. Paolo Gambazzi, op. cit., p. 369.

L’altissimo ruolo che il filosofo affida all’intuizione estetica, l’identificazione di verità e bellezza che questa idea comporta, ripropone in termini filosofici quell’ideale di uomo intero, in rapporto organico con la natura, che abbiamo visto emergere, in forma rapsodica e aforistica, nei frammenti di Novalis.

L’arte è per il filosofo l’attività suprema, perché gli apre, per così dire, il santo dei santi, dove in eterna e originaria unione brucia quasi in un’unica fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato e ciò che nella vita e nell’azione, come nel pensiero è costretto a fuggire eternamente se stesso. (F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, citato in Ernst Cassirer, op. cit., p. 313)

Ma a ben guardare, non si tratta solo di una differenza di forma, ma anche di contenuto: l’unità di spirito e natura non è mai un fatto compiuto nell’idealismo novalisiano, così come invece tende a esserlo nella filosofia dell’identità, ma si presenta come attività continua, come un inesauribile “compito” della volontà. V. N. Hartmann, op. cit., p. 196.

Anche i molti punti di convergenza che la filosofia della natura di Schelling presenta con quella di Goethe si svelano, a una più attenta considerazione, più apparenti che reali. Se anche in Schelling, come in Goethe, opera una concezione dinamica e organica della natura, basata sul principio della metamorfosi e sulla ricerca dell’universale nel particolare, tutto ciò, nel filosofo, si inquadra in una prospettiva metafisica del tutto estranea al grande poeta tedesco. L’uso ipertrofico della “costruzione” concettuale in luogo dell’intuizione viva, con il conseguente conflitto tra esperienza e idea, la neoplatonica identificazione della realtà empirica con il limite, e in seguito con il male, che Schelling ha operato, rendono inconciliabili le concezioni dei due pensatori. Perciò,

mentre alla poesia, mentre all’arte e alla meditazione di Goethe sulla natura fu concesso di creare una pura rappresentazione simbolica del reale, la filosofia di Schelling finisce in un gioco soggettivo e arbitrario di allegorie concettuali. (Ernst Cassirer, op. cit., p. 348. Per una dettagliata discussione su analogie e differenze tra Goethe e Schelling, v. stessa opera da p. 342 a p. 350)

La natura sottomessa: ambiguità della filosofia della natura di Hegel

Se si leggono le pagine che Hegel ha dedicato alla filosofia della natura nell’Enciclopedia, o al bello naturale nell’Estetica, si può cogliere, con tutta evidenza la radicale trasformazione che il suo sistema ha introdotto. Se formalmente vengono accolti tutti quei fermenti di una nuova esperienza della natura e dell’arte che erano stati patrimonio della generazione romantica, in realtà il loro inserimento nel grande progetto dialettico ne comporta la perdita di ogni concreto contenuto autonomo. Hegel condivide le critiche al meccanicismo e alla sua concezione obiettivistica del mondo naturale e umano e, pur nel proliferare di stravaganti fantasticherie analogiche (Ernst Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 219-222), afferma decisamente la necessità di una determinazione qualitativa della natura.

Oggi, dopo Husserl e Bloch, una simile fisica qualitativa e la correlativa scienza generale della sensibilità, riacquista una sua possibile collocazione (non di negazione del sapere matematico-quantitativo della natura, bensì di rifiuto della riduzione della realtà al metodo con cui è analizzata in un suo aspetto) dentro un mutato rapporto – anzi, dentro un rapporto da mutare, tra individuo, natura e scienza. (Paolo Gambazzi in, Paolo Gambazzi-Gabriele Scaramuzza (a cura di), Arte e morte dell’arte (Antologia dall’Estetica di Hegel), Il Saggiatore, Milano, 1979, p. 16)

Come per i romantici, Newton è il simbolo dell’Errore, colui che ha avuto l’ardire di rimaneggiare l’opera di Keplero, indicato come esempio di una visione armonica della realtà, dando a quelle leggi del movimento celeste che erano espresse in modo semplice ed elevato, la forma riflessiva della forza di gravità. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 2 voll., Laterza, Bari, 1975, p. 255)

Nella Sezione II della Filosofia della natura, dedicata alla Fisica, Hegel polemizza aspramente con la teoria dei colori di Newton, alla quale oppone quella di Goethe. La teoria del fisico inglese viene definita un “barbarismo” in quanto, concependo la luce come composta, fa sì che il chiarore “consista di sette oscurità”, con la stessa plausibilità con la quale “si potrebbe far consistere l’acqua chiara da sette specie di terra”. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 309. Newton è anche accusato di “improprietà, scorrettezza, insipienza e malafede” per il modo in cui ha condotto i suoi esperimenti e per come ha elaborato le sue convinzioni. Contestabile sarebbe anche l’uso della matematica nello studio del fenomeno cromatico. (v. p. 309-311) Anche nell’Estetica Hegel accoglie la teoria di Goethe per cui “l’unità e il compenetrarsi reciproco della luce e dello scuro costituiscono il colore“. V. G.W.F. Hegel, Estetica, 2 voll., Feltrinelli, Milano, 1978, p. 826. Nella parte dedicata al sistema delle singole arti, parlando della pittura (prima arte romantica) Hegel affronta una lunga e interessante discussione sul problema del colorito (terza determinazione specifica del materiale sensibile pittorico, dopo la prospettiva lineare e il disegno). V. p. 1103-1118. Il colorito è quello “che fa del pittore un pittore” in quanto “porta la pienezza dell’anima alla sua apparenza propriamente vivente“. Del colore vanno evidenziati alcuni punti importanti: il chiaro e lo scuro come base astratta su cui si fonda “l’apparire vero e proprio della figura, come figura sensibile, ossia ciò che si chiama modellatura“; il colore vero e proprio, di cui bisogna considerare: 1) il chiaro e lo scuro dei colori gli uni rispetto agli altri: qui vengono analizzati i colori cardinali (blu, giallo, rosso, verde) nei loro rapporti come luce ed ombra, con espliciti riferimenti a Goethe; 2) l’armonia dei colori, basata sulla legge della totalità e della compiutezza, secondo la quale in una composizione armonica nessun colore fondamentale può mancare; 3) altri aspetti, quali la prospettiva aerea, secondo la quale l’aria atmosferica determina con la distanza una diversificazione del colore degli oggetti; l’incarnato, culmine della colorazione, in quanto il “tono di colore della carne umana riunisce in sé in un modo meraviglioso tutti gli altri colori senza che l’uno o l’altro spicchi autonomamente” (su questo specifico argomento vi è anche un interessante confronto tecnico tra mosaico, colori a tempera, affresco e colori a olio, con netta preferenza accordata a questi ultimi); la magia degli effetti della colorazione per cui nasce una “compenetrazione di colori, un gioco di riflessi che si riflettono in altri e che divengono così fini, così sfuggevoli, così ricchi di anima che iniziano a passare nel regno della musica“; la soggettività creatrice dell’artista nella produzione della colorazione, importante perché il senso del colore deve essere una qualità artistica, un lato essenziale dell’immaginazione produttiva e dell’invenzione. V. G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 1101-1118.

Tuttavia, questa incondizionata adesione alle tematiche della scienza qualitativa è compatibile con la svalutazione della natura, con la sua riduzione a momento dialettico intermedio destinato a inverarsi nello Spirito. La natura è sottomessa al progetto storico di sviluppo della civiltà e solo all’interno di questo riferimento ha una reale necessità. La natura, infatti, si mostra come “l’Idea nella forma dell’esser-altro” per cui, essendo l’Idea esterna a sé, la determinazione nella quale la natura si presenta è quella dell’esteriorità, in cui “le determinazioni concettuali hanno l’apparenza di un sussistere indifferente e dell’isolamento“. Nessuna libertà compete perciò alla natura, ma solo necessità ed accidentalità. In questa “decadenza dell’idea”, “non solo il gioco delle forme è in preda a un’accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sé del concetto di se stessa“. Perciò Hegel può sorprendentemente affermare che

anche quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa di infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perché colui, che così erra, è pur sempre spirito. (G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 221-223)

Formalmente considerando, qualsiasi cattiva idea che venga in mente all’uomo, sta più in alto di qualunque prodotto della natura, poiché in esso è sempre presente la spiritualità e la libertà. Secondo il contenuto, poi, il sole per esempio, appare di certo come un momento assolutamente necessario, mentre un pensiero malfatto sparisce come accidentale ed effimero; ma una tale esistenza naturale qual è il sole, per sé presa, è indifferente, non è in sé libera e autocosciente, […] quindi non la consideriamo come bella (G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 6-7)

Anche la drastica svalutazione che Hegel fa del bello naturale nei confronti di quello artistico va letta in quest’ottica. La bellezza artistica è, infatti, la bellezza “generata e rigenerata dallo Spirito“, mentre con la bellezza naturale siamo nell’ “indeterminato senza criterio” (ibid. p. 6-8). Le manchevolezze del bello naturale sono molteplici e diversamente distribuite nei vari gradi in cui la natura si presenta. Per l’organismo animale, per esempio, visibile non è l’anima, ma formazioni di un grado inferiore rispetto alla vitalità vera e propria. Inoltre, in quanto singolo animale, si trova incatenato a un determinato ambiente e questa dipendenza si riflette negativamente sulla pienezza della sua forma. Anche il corpo umano, pur lasciando apparire all’esterno la sua vitalità, mostra nella pelle che si stacca, nei tagli, nelle rughe, nei pori, nelle venuzze “l’indigenza della natura” e nell’infinita accidentalità delle sue forme, tutta la limitatezza dell’esistenza singola immediata.

E i fanciulli sono in generale i più belli proprio perché in essi tutte le particolarità sono assopite […], nessuno dei molteplici interessi umani è ancora riuscito a imprimersi saldamente nei loro tratti cangianti con l’espressione del proprio urgere. Ma in questa innocenza […] mancano però anche i tratti più profondi dello spirito. (ibid. p. 201-203)

Nella realtà immediata degli interessi spirituali, si svela infine tutta la “prosa dell’esistenza umana” in un mondo fatto di “finitezza e di mutamenti, inviluppato nel relativo, oppresso dalla necessità“.

La necessità del bello artistico deriva quindi dalle insufficienze della realtà immediata, […] esso è chiamato […] a rendere l’esteriore conforme al suo concetto. Solo in tal caso il vero è tratto fuori dalla sua ambientazione temporale, dal suo disperdersi nella serie delle finitezze. (ibid. p. 203)

All’impotenza della natura si contrappone la potenza della ragione, la realtà infinita dello Spirito che, nell’incessante movimento dialettico, tutto assimila a sé, a ogni cosa toglie autonomia e assegna il ruolo di momento processuale. In questo senso si può dire con Bloch che

La natura in Hegel è “passata” sia nel senso di attraversata, sia nel senso di trascorsa temporalmente, un morto basamento per la storia umana dal quale ogni storia è esclusa. […] In quanto la natura si è sprofondata in sé, in quanto lo Spirito della terra, come Hegel lo chiama, si risveglia nell’uomo e giunge alla coscienza, inizia una conoscenza più alta – post nubila Phoebus, dopo Proteo la rivoluzione storica. (Ernst Bloch, op. cit., p. 234)

In questo divenire logico, il divenire organico della natura viene umiliato a mera sofisticazione dialettica.

L’inconciliabilità con il pensiero concreto di Goethe si può cogliere in quel famoso sofisma di Hegel che tanto aveva irritato il grande poeta, che afferma essere il fiore la negazione del boccio e il frutto la verità del fiore. (Guido De Ruggero, Storia della filosofia. Hegel, Laterza, Bari, 1972, p. 31)

 

Lascia un commento