Il concetto di laicità
Il concetto di laicità è trasversale in tutte le culture, anche se acquista particolare rilevanza e specificità nella cultura occidentale e cristiana. Anche qui, del resto, in modo non uniforme: la laicità preilluministica è diversa, profondamente diversa, da quella postilluministica. Proprio l’illuminismo (o la mancanza di illuminismo) è dirimente per comprendere che cos’è laicità. Un modo sbagliato, o meglio, parziale, di pensare questo concetto è proiettarlo su uno sfondo storico, quello della separazione fra stato e chiesa, fra sfera politica e sfera religiosa. Così intesa, ogni rivendicazione di autonomia da parte di una qualunque umana attività sarebbe “laica”, a cominciare da quella reclamata dai primi cristiani nei confronti dell’Imperatore. Ma ridurre la laicità a un conflitto di competenze o a una rigida ripartizione di territori, significa perderne l’essenziale.
E qui arriviamo all’illuminismo e alla definizione perfetta che ne dà Kant in Was ist Aufklärung (Cos’è Illuminismo)
Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Motto dell’illuminismo è invece Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.
Kant parla a ragion veduta di coraggio, perché il fondamentale sottinteso di questa definizione è che l’autonomia comporta sempre un’irrinunciabile assunzione di responsabilità.
Laico è colui che parla e agisce sempre e solo in nome proprio, in prima persona, e, conseguentemente, risponde direttamente delle proprie parole e azioni. Non laico, invece, è chi parla in nome di Dio, o del Proletariato o della Ragione o della Comunità o della Razza o di qualunque altra entità ipostatizzata.
Se questo è vero, allora di laicismo si può tranquillamente parlare anche per altre culture. C’è un singolare personaggio, ben conosciuto nel variegato underground islamico, Mohammad Anwar Shaikh (citato dal pakistano Tariq Ali nel suo bel libro Lo scontro dei fondamentalismi, Milano, Rizzoli, 2002), che rivolge alla sua religione, ma questo naturalmente vale per ogni religione, quelle monoteistiche in particolare, le religioni del Libro, per intenderci, la più radicale delle critiche, colpendola proprio nel cuore, cioè nel concetto di Rivelazione. Richiamandosi ai filosofi mu’taziliti, i primi “razionalisti” dell’Islam e, in particolare a un pensatore del IX secolo, Ibn Rawandi, “sprezzante verso profeti, profezie e miracoli”, afferma che la Rivelazione è un mezzo attraverso il quale un uomo (il rivelatore) si rende divino e Dio viene ridotto alla statura di un uomo, dalle cui parole “rivelate” dipende. Non è la stessa cosa, in termini di forza dirompente, se un’idea si presenta al mondo con l’etichetta “autore: Tizio” oppure con quella ben più eclatante “autore: Dio” (o altra entità di cui sopra).
Se essere laici significa assumersi il rischio e l’opportunità di parlare e agire sempre e solo in nome di se stessi, allora le implicazioni politiche, sociali, ma soprattutto etiche, di questo, sono di enorme portata, come è facile comprendere. Ben maggiori di quelle derivanti da un mero conflitto di competenze, sia che tale conflitto si risolva con una divisione di territori (il privato alla religione, il pubblico allo Stato, come in Occidente) oppure no, come in parte è nell’Islam.
Fede laica e fede religiosa
In cosa crede chi non crede in Dio? Dietro questa domanda, spesso rivolta da religiosi a non credenti, si cela una mascherata sudditanza alla mentalità religiosa. Non è un mistero che i credenti ritengono che i non credenti siano, inconsciamente, sempre alla ricerca di Dio. Il non credente, così, si trova definito, suo malgrado, a partire da una prospettiva religiosa, e diventa l’ateo, termine oltremodo molesto perché travisa un merito, l’essere liberi pensatori, in una mancanza, l’essere senza dio. Molti laici, del resto, contribuiscono a questa distorsione, allorché, con immotivata umiltà, sembrano attribuire una risorsa in più a chi possiede una fede. Data la sperimentata capacità che la fede ha di “motivare”, non c’è dubbio che si tratti di una risorsa, meno scontato è che l’umanità abbia sempre tratto vantaggio da essa. Conviene allora riformulare diversamente la domanda, attribuendo al primo “crede” un significato diverso dal secondo. Chiediamoci, allora, “come, in che modo, crede, chi non crede in Dio?”
La credenza, ogni credenza, è, nella sua stessa essenza, sempre il risultato di una decisione. Questo vale sia che io creda alla più certa delle conoscenze matematiche come alla più precaria e incerta delle percezioni. L’epistemologo Thomas Kuhn non si fa problemi a introdurre la fede nel territorio della scienza: è per la fede riposta nella sua fecondità, infatti, che uno scienziato decide di aderire a un nuovo paradigma, non ancora sperimentalmente suffragato. In senso generale, allora, credere è decidere di impegnarsi, di spendersi per qualcosa. Ogni pensiero o azione, che a valle impone una responsabilità, richiede a monte una credenza. Perciò chiedersi in cosa si crede e come si crede è il cuore del problema, il punto in cui emerge la differenza fra una credenza laica ed una non laica.
In Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari affermano che l’idea è, nella sua essenza, creazione che il pensatore oppone alla minaccia annientatrice del caos. Per i due autori, solo la filosofia, la scienza e l’arte, ognuna a modo loro, sono capaci di idee. Che c’è in questa convinzione di ragguardevole, rispetto all’argomento che stiamo trattando? Il fatto rilevantissimo che le creazioni filosofiche, scientifiche e artistiche, sorgono come tali solo in quanto hanno il coraggio di es-porsi. Nessuna idea, nessuna creazione, se non vuole immediatamente irrigidirsi in dogma, può rifiutarsi di esporsi e scegliere di rinchiudersi in un sacro recinto, un fanum, un tempio. Se lo facesse, diventerebbe automaticamente un’idea fanatica, cioè un dogma. Le idee vivono bene solo fuori dal fanum, nello spazio pro-fano.
Allora, “come crede chi non crede in Dio, o nel Proletariato, ecc.?” Assumendosi la responsabilità delle proprie credenze profane, senza metterle sotto la tutela di un qualunque fanum. Potremmo dire: es-ponendosi, anziché im-ponendosi. Per filosofi, artisti o scienziati, gli scrupoli che alimentano il piagnisteo del politically correct non possono che suonare ridicoli? Ci vogliono sacre convinzioni, identità ritenute inviolabili, perché questo deprimente antidoto al pensiero possa prosperare. Solo quando si confrontano dogmi, la suscettibilità del titolare del dogma è un ingrediente fondamentale, anzi, è una considerazione preliminare, al confronto stesso. Un’idea esige di essere amata, avversata o ignorata, ma non reclamerà mai rispetto. Nessun laico si sognerebbe mai di chiedere rispetto per le proprie idee. Nessun laico scriverebbe un libro con il titolo “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”.
Il carattere privato della religione e il destino della laicità
Alla luce del concetto di laicità che ho cercato di tratteggiare, concludo con due riflessioni: la prima riguarda il carattere privato della religione, l’altra il destino della laicità.
Io non credo che una fede dogmatica possa rassegnarsi a vivere in una dimensione privata e personale. Quando questo accade è perché sono attive istanze moderatrici estrinseche alla religione. Prendiamo l’aborto, ad esempio. Un cristiano, in base ai dogmi in cui crede, non può che consideralo un omicidio. Se è così, non è sufficiente che lo condanni nel suo privato, deve fare tutto il possibile per impedirlo, altrimenti è colpevole davanti a Dio. Così è per ogni dogma di ogni fede: non si risponde a sé e agli uomini, ma a qualcosa che trascende la comunità umana. Perciò il comunismo, coerentemente, afferma che il privato è politico, perciò l’islam, che non è una religione fra le altre, ma l’essenza stessa della religione, divide il mondo, non in spazio privato e pubblico, ma nella Terra della Pace, dove il dogma si è imposto, e nella Terra della Guerra, dove il dogma sarà imposto. Se questo è vero l’idea dogmatica non può vivere con pacifica accettazione il pluralismo di idee, perché sarebbe come tradire la “trascendenza” in cui essa trova fondamento.
Quanto al destino della laicità, non si può essere che pessimisti. Il pensiero laico, come la democrazia, è un’eccezione nella storia dell’umanità e per sua natura è precario, effimero. I dogmatismi nelle forme più varie torneranno a prevalere. Oggi assistiamo allo scontro spettacolare fra il dogmatismo liberista e quello islamista, domani saranno altri i soggetti in gioco, ma uguale sarà la dinamica, lo scatenarsi violento delle intolleranze. C’è un libro che può aiutare a leggere in profondità le minacce che incombono su ogni società , secolarizzata, inclusa la nostra. È un classico del 1951 che, apparentemente, parla d’altro, I greci e l’irrazionale di Eric R. Dodds, in particolare gli ultimi tre capitoli, dove l’autore illustra le ragioni dell’irresistibile avanzata dell’irrazionalismo ad Atene e nella Grecia antica, la più laica e razionale delle società mai apparse nella storia. Andrebbero riletti con grande attenzione.
Appendice: l’islam come essenza della religione
Come l’essere per Aristotele, anche la religione si dice in molteplici modi, ma solo uno di questi modi, per la sua radicalità, mi sembra essenziale, quello inteso dall’islam. Provo, con uno sforzo di estrema sintesi, a spiegare perché.
L’etimologia del termine dogma (dógma, da dokéo, penso, mi sembra, credo, verbo da cui deriva anche dóxa, opinione) rivela che la struttura cognitiva profonda della religione è pericolosamente, ma non sorprendentemente, vicina a quella dell’opinione, la quale, come è noto, trae la sua legittimità da due fonti, la tradizione (si dice che …, si tramanda che …) e l’autorità (ipse dixit). È la fede (pístis, fides, dalla rad. indoeuropea bheidh, fidarsi), infatti, che si fa garante della verità dei dogmi.
Affinché il senso dell’essere, di cui la religione intende assicurarci, non sia fondato sulle sabbie mobili dell’opinione, è necessario, allora, che la tradizione trovi corpo in un’istituzione (la Chiesa, o l’intera comunità sacralizzata, la Umma) e che l’autorità assuma i tratti e il tono indiscutibili della Rivelazione.
A causa della sua originaria e strutturale opinabilità, la forza di un dogma è più legata alla sua fonte che al suo contenuto. Anzi, a ben guardare, l’unico vero ed essenziale contenuto di un dogma è l’affermazione dell’unicità (tawhid) e dell’indiscutibilità della fonte (è questa l’essenza della dichiarazione di fede islamica, la shahada).
L’ortodossia definisce uno spazio al di fuori del quale c’è ignoranza ed errore (jahiliya) e in cui ogni innovazione (bid’a) è vietata, ogni sforzo di interpretazione della legge (ijtihad) scoraggiato o rigidamente controllato. Questa ortodossia essenziale e immutabile trova il suo sostegno grazie ai solidi pilastri di un’ortoprassi minuziosa, cogente e, soprattutto, comunitaria.
Anche l’antropologia è coerente con questo quadro. Nella concezione islamica dell’uomo non c’è colpa originaria, egli nasce innocente e sottomesso (muslim) all’ordine trascendente, in armonia con esso. Il mito della ribellione, che diversamente travaglia ebraismo (il peccato originale) e cultura greca (Prometeo) e che trova il suo epilogo e coronamento nella vittima divina riparatrice di questa ribellione archetipica (Cristo), in una religione essenziale come l’islamismo non c’è, non può esserci.
La shahada, in realtà, a differenza del battesimo cristiano, non è una conversione, ma una conferma all’islam. Perciò il vero peccato nell’islam non è lo stato di kafir, l’infedele, uno stato di ignoranza da cui si può sempre uscire e che, a certe condizioni, può anche essere tollerato, ma quello di apostasia (ridda: separazione, ribellione, negazione), rifiuto consapevole e imperdonabile non solo della verità rivelata, ma anche della stessa condizione naturale dell’uomo, oltre che della comunità dei fedeli. Il rifiuto opposto all’islam dall’apostata, prima di essere di natura ideologica, è di natura antropologica.
La filosofia, in quanto ribellione al dogma (= opinione imposta), è il nome che l’Occidente ha dato all’apostasia. Proprio a causa della filosofia, di cui è creatore e unico interprete, l’Occidente è incapace di islamismo e, quindi, di vera religione.
Numerosi e vari sono i casi di incomunicabilità fra Occidente e islam, alcuni clamorosi. Mi limito a citarne tre, a mio avviso molto significativi.
- Estraneità dell’islam: “Maometto parla un linguaggio che, per noi, non ha il senso chiaro e definitivo di quello del Buddha o del Cristo. Per quanto poco siamo attenti, il Buddha e il Cristo si rivolgono a noi, ma Maometto ad altri …”. (Bataille, La parte maledetta).
- Rifiuto dell’islam: “Nel Corano troviamo la forma più squallida e più povera di teismo. Ammettiamo pure che molto sia andato perduto nella traduzione, ma, in quest’opera, io non sono riuscito a scoprire nemmeno un pensiero dotato di valore”. (Schopenhauer, Supplementi al primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione).
- Rimozione dell’islam: Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della religione trova lo spazio per parlare delle più oscure religioni animistiche, ma dedica solo pochi ed occasionali cenni all’islamismo, definito in modo rivelatore come l’opposto del cristianesimo.