Cosa, opera e verità nell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger – 1

Il concetto di filosofia in Heidegger

La filosofia non è una disciplina specifica

Se per estetica intendiamo una particolare e ben determinata disciplina filosofica e, precisamente, quella parte della filosofia che ha per oggetto lo studio dell’arte, del bello artistico e del significato delle opere d’arte, allora il saggio di Heidegger L’origine dell’opera d’arte (in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1989, p. 3-69; da ora in poi OPA seguito dal numero della pagina) non è un testo di estetica. Come, per altro, il grande libro di Heidegger del 1927 Essere e tempo (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976) non è un’opera di metafisica, se con tale termine ci riferiamo a quella disciplina filosofica che ha per oggetto lo studio dell’essere nel senso più generale ed eminente del termine.

Gli scritti di Heidegger, ma non solo, gli scritti filosofici in senso autentico, anche quando hanno per tema qualcosa di ben determinato, non sono mai inquadrabili in una specifica disciplina. Questo perché la filosofia non ha uno particolare oggetto di studio, non essendo indagine di una qualunque regione dell’ente, come la fisica, l’economia o la sociologia. Proprio della filosofia è il non rapportarsi ad alcunché in modo tematizzante, nemmeno all’ente preso nella sua totalità. Si può pensare, infatti, che la filosofia, a differenza delle discipline particolari, abbia per oggetto la totalità dell’ente, l’ente in generale. In realtà non è così, perché sarebbe porre il tutto come qualcosa di determinato da studiare. Il pensiero filosofico, per sua essenza, non è un pensiero positivo, come quello delle scienze o di ogni altra disciplina. La filosofia, secondo Heidegger, si dispone davanti all’ente non in modo positivo e oggettivante, ma in modo essenziale e totalizzante, in un modo, cioè, in cui l’afferramento dell’ente interrogato comporta contemporaneamente l’afferramento dell’ente interrogante.

L’origine dell’opera d’arte, allora, non ha per oggetto l’arte e, in questo senso, non è un testo di estetica, Essere e tempo non ha per oggetto l’essere o l’uomo e non è, quindi, un testo di metafisica né tantomeno è un testo di filosofia esistenzialista. Eppure arte ed essere acquistano, proprio in queste opere non estetiche né metafisiche, il loro senso più profondo. Questo perché l’una e l’altra sono opere di filosofia in un senso che è lontanissimo da quello tradizionale, sono opere, cioè, di quel pensiero che Heidegger chiama pensiero meditante e che, esplicitamente e ripetutamente, contrappone alla ratio, all’intelletto, al pensiero calcolante.

Solo due parole per un inquadramento storico-culturale del saggio nell’ambito dell’evoluzione del pensiero heideggeriano. Chiunque abbia letto un testo introduttivo alla filosofia di Heidegger si è, a un certo punto, imbattuto nella famosa questione della svolta che, attorno alla metà degli anni trenta, si sarebbe verificata nel pensiero del filosofo. Ebbene, L’origine dell’opera d’arte è considerata da molti come il testo in cui quella famosa “svolta” si concretizza. In quest’opera del ’36, in altri termini, sarebbe pienamente attuato quel passaggio dalla centralità del problema esistenziale alla centralità del problema ontologico che era stato annunciato, per così dire, nel ’35 con Introduzione alla metafisica (M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milamo, 1968). Se si tratti davvero di una svolta e in che modo tale supposta svolta debba essere intesa è uno di quei problemi di storiografia critica filosofica che Heidegger per primo riterrebbe inessenziali per la comprensione del suo pensiero. Ciò che va detto e sempre ricordato è che, in realtà, l’essere rimane la questione da-pensare del “primo” come del “secondo” Heidegger.

Che cosa accade, in realtà, nella famosa “svolta” e perché ci interessa parlare brevemente di essa mentre stiamo interrogandoci su che cos’è filosofia? Perché in tale questione viene alla luce un altro peculiare carattere della filosofia, connesso a quello precedentemente enunciato (di non essere, cioè, la filosofia, una disciplina come la psicologia, la zoologia, la teologia, ecc.). Dopo la svolta, si dice, il punto di vista del filosofo non è più quello del Da-sein, dell’esserci o esistenza, come in Essere e tempo, ma diventa quello del Sein, dell’essere: non si parla più dell’essere a partire dall’uomo, ma dell’uomo a partire dall’essere. È sulla base di questo luogo comune che avviene il fatale fraintendimento della filosofia in quanto tale (assolutamente non riducibile a punti di vista) e della filosofia di Heidegger in particolare, banalizzata a una successione di “periodi”: dal periodo esistenzialista a quello ontologico.

La filosofia non è una visione del mondo

La filosofia non è mai punto di vista. Se vogliamo parlare di cambio del punto di vista, è bene intenderci allora che non si tratta di un cambio di prospettiva ontica o soggettiva, del tipo: prima il mondo era visto con gli occhi dell’uomo, per cui l’essere veniva permeato dagli “esistenziali”, quasi innervato da essi, fino a farne un affare dell’uomo, ora, invece, l’uomo è visto alla luce del mondo, per cui sono i caratteri dell’essere che ridisegnano l’uomo, determinandone il profilo. Il punto di vista in filosofia non è mai ontico, ma ontologico: perciò, se si parla di spostamento di prospettiva, questo non va inteso come un cambio di strada, perché il procedere del pensiero è in realtà un seguire le curve che la stessa strada impone. Il pensiero di Heidegger si mantiene sempre sulla stessa strada e ne segue le svolte. Il luogo proprio di questo pensiero, che poi è il luogo proprio della filosofia in generale, perché, come scrive Heidegger, tutti i filosofi pensano lo stesso, è quello della co-appartenenza di uomo ed essere.

Ciò che conta, allora, non è capire come e se Heidegger abbia cambiato idea, quanto interrogarci sul rivolgimento (non certo stravolgimento) o, meglio, sul rivolgimento-svolgimento delle tradizionali categorie del pensiero filosofico ed estetico al quale ci troviamo di fonte quando leggiamo un testo di Heidegger. Che un testo sull’origine dell’opera d’arte, infatti, abbia come parole chiave non contenuto, forma, bellezza, gusto, piacere estetico e così via enumerando tutte le tradizionali categorie dell’estetica, ma mondo, terra, verità, cosa, essere, ci fa intuire la radicale alterità del pensiero heideggeriano rispetto al pensiero tradizionale, tenendo ben presente, tuttavia, che alterità non significa ostilità, antitesi o critica.

La filosofia non è conoscenza oggettiva

E qui incontriamo un terzo aspetto della filosofia: già abbiamo visto che la filosofia non è una disciplina scientifica (non ha un oggetto di studio né particolare né generale) e che non è nemmeno riducibile a visione del mondo (non è mai l’esplicitazione di punti di vista soggettivi), ora affermiamo che, proprio per questo, la sua storia non è riducibile a un progresso di conoscenze, come sarebbe se fosse una scienza, né a un conflitto di opinioni, come sarebbe se fosse una concezione del mondo. Pertanto l’autentico rapporto della filosofia con la propria tradizione non può essere né critico né polemico, perché non riguarda né verità oggettive né opinioni personali di questo o quel filosofo.

Heidegger è un maestro nell’interrogare la tradizione filosofica e nel metterne in evidenza i nodi concettuali decisivi e il suo lavoro non è una critica della metafisica; non lo è certamente nel senso in cui Carnap e i neopositivisti logici, ad esempio, criticavano la metafisica, accusandola di essere una disciplina “non scientifica” perché anziché occuparsi di fatti, si occupa di parole, alle quali non corrisponde nessuno stato di cose, e non è nemmeno una critica di tipo mistico-religioso, tale, cioè, da ritenere la metafisica incapace di attingere l’oggetto eminente della sua ricerca, cioè il sommo ente, perché si servirebbe del pensiero, laddove, invece, è necessaria una facoltà non discorsiva, ma intuitiva.

Il pensiero di Heidegger si pone davanti alla metafisica non in vista di una critica, ma di un superamento (Überwindung) della metafisica stessa, superamento che è anche conservazione, ripresa e ripensamento della metafisica. In Heidegger ritroviamo tutta la concettualità metafisica. Il suo filosofare, addirittura, riporta in auge uno stile e un lessico apertamente “scolastici”, se non addirittura arcaizzanti. Ma tale concettualità la ritroviamo come dis-locata, come ri-proposta in altri termini.

Superamento della metafisica e dell’estetica

Entriamo ora più direttamente nel testo heideggeriano e cominciamo a riflettere sui titoli stessi delle opere che abbiamo citato. Il primo titolo, Essere e tempo, è, filosoficamente parlando, un vero e proprio ossimoro, del tipo ghiaccio bollente. L’essere, il vero essere, non l’essere fenomenico e sensibile, e il tempo, la temporalità, sono sempre stati considerati dalla tradizione filosofica come antitetici: l’essere è ciò che è eternamente uguale a se stesso e che si oppone non solo al nulla, ma anche al divenire, un essere pervaso dal nulla, che solo con grandi affanni la filosofia è riuscita a sottrarre al nulla stesso. Eppure in Heidegger, e qui il precedente diretto è Nietzsche, essere e tempo non si danno come dualisticamente inconciliabili, ma in un rapporto di identità e differenza, tale da poter affermare che essere è tempo. Anche il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso nel suo senso più ovvio, come una ricerca volta a porre in luce ciò da cui l’opera d’arte ha origine, i suoi presupposti, dunque, (l’imitazione della realtà, la dimensione psicologica e la vicenda biografica dell’artista, la ricerca formale e sintattica della composizione, e così via), quanto come l’annuncio che l’opera d’arte è un’origine, che il mondo dell’opera, cioè, non è il mondo entro il quale l’opera appare, manufatto o prodotto fra altri manufatti e prodotti materiali o spirituali di quel mondo, ma è invece il mondo che l’opera stessa apre e illumina.

Questo peculiare rivolgimento del pensiero tradizionale che già abbiamo colto nei titoli delle opere, emerge in tutta la sua radicalità anche solo a un primo sguardo generale gettato all’interno delle opere stesse. Il Da-sein (esser-ci, ma anche esistenza e uomo) e il Kunstwerk (opera d’arte) sono gli “argomenti” di Essere e tempo e dell’Origine dell’opera d’arte.

Ebbene, la filosofia tradizionale ci ha consegnato una definizione di uomo universalmente accettata: uomo = animale razionale. In quanto animale l’uomo è genericamente qualcosa che ha delle determinazioni comuni a molti altri enti (tutti quelli che le scienze naturali classificano nel regno animale e che la zoologia assume a oggetto di studio), in quanto razionale, tuttavia, si differenzia in modo specifico da tutti gli altri animali, venendo, con ciò, a costituire una specie ben determinata. L’uomo, allora, è l’unione di due determinazioni, una determinazione generica, l’animalità, e una determinazione specifica, la razionalità: è, appunto, animale razionale. Sappiamo che affermare il genere prossimo e la differenza specifica di qualcosa, di qualsivoglia ente, significa propriamente definire quell’ente.

Anche l’opera d’arte, allora, se vogliamo definirla, deve sottostare a questa regola. Ebbene, un quadro, una scultura, ma anche un brano musicale, una poesia, un palazzo di valore architettonico sono tutti enti definibili come cose artistiche. Non c’è dubbio, infatti, che l’opera d’arte sia una cosa, e vedremo le illuminanti analisi di Heidegger a questo proposito, e che, in quanto cosa, sia un ente alla stessa stregua di una pietra (cosa naturale), o di una zappa (cosa tecnica o strumento). Se ripensiamo alla definizione di uomo, vediamo che, come l’uomo, in quanto animale, appartiene alla regione ontologica della zoologia, così l’opera d’arte, in quanto cosa, appartiene alla regione ontologica dell’ente inanimato, mera cosa o strumento che sia. Tuttavia, come l’uomo non è mero animale, così l’opera d’arte non è mera cosa, non è genericamente cosa. Essa si differenzia dalle altre cose perché non ha, ad esempio, un valore di utilità (come una materia prima o uno strumento) o nessun valore (come un sasso che incontriamo sulla via) ma ha un valore artistico. La determinazione “artistico” si aggiunge alla generica cosa per formare un’opera d’arte, così come la determinazione “razionale” si aggiunge all’animale per formare l’uomo. Che cosa poi sia il razionale o l’artistico è lasciato al gioco delle opinioni filosofiche, o scientifiche, o psicologiche, o estetiche e così via, a seconda della disciplina che assume l’uomo o l’opera d’arte a suo oggetto di studio.

Ebbene, fra le altre cose, Essere e tempo è un grande libro che dichiara inessenziale, se non addirittura fuorviante, la tradizionale definizione di uomo come animale razionale, così come L’origine dell’opera d’arte dichiara inessenziale e fuorviante la definizione dell’opera d’arte come cosa o oggetto artistico.

Due definizioni di filosofia

Addentriamoci ora nel concetto heideggeriano di filosofia, la cui importanza è difficilmente esagerabile, dal momento che non solo Heidegger ha esplicitamente dedicato al chiarimento di tale concetto più di uno scritto, ma anche che la quasi totalità delle sue lezioni universitarie finora pubblicate contengono come parte preliminare proprio una discussione sul “che cos’è filosofia?”.

Partiamo allora da due definizioni di filosofia. Una la leggiamo nelle prime pagine del ciclo di lezioni del semestre invernale ’35-’36 che va sotto il titolo di La questione della cosa (M. Heidegger, La questione della cosa, Guida, Napoli, 1989, da ora in poi QC seguito dal numero della pagina), l’altra la possiamo costruire a partire dai Concetti fondamentali della metafisica (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Il Melangolo, Genova, 1992, da ora in poi CFM seguito dal numero della pagina). La prima definizione prende le mosse dall’aneddoto della servetta tracia raccontato da Platone nel Teeteto:

Si racconta dunque di Talete che, mentre stava mirando la volta celeste e aveva gli occhi in su cadde in un pozzo. E allora una servetta tracia, spiritosa e graziosa, lo prese in giro dicendogli che mentre si dava gran pena di conoscere le cose celesti, non vedeva affatto quelle che gli stavano davanti al naso e ai piedi. La stessa ironia – aggiunge Platone – s’addice a tutti coloro che s’occupano di filosofia. (Teeteto, 174a)

A commento di questo aneddoto Heidegger fornisce la sua definizione di filosofia. La definizione è provocatoria abbastanza da far indignare tutte le persone “sensate” ma, avverte Heidegger, pur nella sua paradossalità, non è affatto uno scherzo:

La filosofia è quel pensiero col quale, per la sua stessa essenza, non si può far niente, e di cui le servette [che in quanto tali non possono apprezzare se non ciò che serve], necessariamente ridono. (QC, 41)

L’altra definizione, invece, proviamo a costruirla noi mantenendoci, naturalmente, fedeli al dettato heideggeriano. Heidegger, ripetutamente e kantianamente, riconosce che la filosofia è parte ineliminabile della natura umana; tale riconoscimento è però accompagnato dalla convinzione che ciò si manifesta in tutta la sua peculiare originarietà non nella sfera della conoscenza, nell’ambito del pensiero, ma in “stati d’animo fondamentali” nei quali l’uomo viene già da sempre a trovarsi. In due di questi, in particolare: quello dell’angoscia, che Heidegger analizza nel § 40 di Essere e tempo, stato d’animo che conduce l’uomo al cospetto del niente e quello della noia profonda, analizzato nella prima parte delle già citate lezioni sui Concetti fondamentali della metafisica, stato d’animo che pone l’uomo al cospetto dell’ente nella sua totalità.

Dallo stato d’animo dell’angoscia scaturisce la domanda fondamentale della metafisica, che Heidegger riprende da Leibniz e da Schelling (perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?), dallo stato d’animo della noia profonda emerge, invece il problema del mondo nel cui orizzonte l’uomo incontra l’ente e, in relazione all’ente, pone la questione dell’essere e della differenza ontologica. Il nulla e il tutto, ciò con cui il filosofo si intrattiene, non sono allora, oggetto di considerazione teorica, qualcosa di cui occuparsi, non sono enti, sia pur di natura speciale, ma sono ciò che si apre all’uomo quando si trova in uno stato d’animo fondamentale. Lo stato d’animo fondamentale, la situazione affettiva, non è nulla di soggettivo; è in realtà una dimensione ontologica in cui uomo e mondo si trovano.

Partendo da queste considerazioni, allora, possiamo dire che filosofia è quel pensiero che, non occupandosi di qualcosa di determinato, pone nell’angoscia davanti al ni-ente e nella noia profonda davanti al tutto (la filosofia, non occupandosi dell’ente in quanto tale, apre all’essere dell’ente, il ni-ente, in quanto orizzonte di apparizione dell’ente stesso, il mondo). È evidente l’intento di Heidegger di opporsi a una bimillenaria tradizione e di sottrarre le questioni metafisiche alla signoria dell’intelletto e del pensiero raziocinante, riportandole alla loro origine nella vita effettiva e concreta dell’uomo, là dove l’uomo si confronta con il senso dell’essere attraverso l’esperienza radicale della propria temporalità e finitezza.

Quanto il problema dell’affettività e della situazione emotiva (Befindlichkeit) sia fondamentale per la comprensione non solo della filosofia, ma anche dell’opera d’arte, è appena il caso di sottolinearlo e come tale problema non comporti affatto in Heidegger un orientamento verso il soggettivismo e lo psicologismo ma, al contrario, fondi propriamente il discorso ontologico stesso, lo vedremo analizzando proprio il saggio sull’opera d’arte.

La circolarità del pensiero filosofico

Ora che siamo in possesso di due belle definizioni di filosofia è bene che ci mettiamo in cammino per arrivare finalmente alle porte di questa misteriosa filosofia. La strada che percorreremo avrà, però, un andamento peculiare, perché sarà un percorso circolare, e come tale non ci farà fare alcun progresso. D’altronde con tale andamento faremo bene a familiarizzarci in fretta, perché, come vedremo, incontreremo la circolarità del pensiero subito, nelle prime righe del saggio sull’opera d’arte, anzi la struttura stessa del saggio sarà circolare, andando dalla cosa all’opera, dall’opera alla verità, dalla verità all’arte, per riportarci, infine, nuovamente alla cosa stessa.

Proprio la circolarità è l’aspetto caratterizzante del pensare filosofico. In filosofia non è importante quanta strada si percorre perché non si tratta di passare da uno stadio più arretrato a uno stadio più avanzato di conoscenza. Percorrere una via (usare un metodo) in filosofia non significa acquisire conoscenza. Non solo non è importante quanta strada si è percorsa, ma vale, semmai, il contrario, perché più strada si percorre e più ci si allontana (o si rischia di farlo) dal punto originario del pensiero. La via percorsa, filosoficamente parlando, non è un progredire, ma un concentrarsi e, proprio per questo, non mira alla consequenzialità e al concatenamento del discorrere (il che non significa autorizzare parole in libertà, anche la filosofia “rispetta” l’analisi logica ed è un esercizio di rigore), ma al mantenersi saldi nell’originario. Il metodo filosofico non punta alla coerenza lineare, ma alla fedeltà fondamentale. Dunque, nel filosofare ci muoviamo in un cerchio. A questo proposito voglio citare un brano dove Heidegger esplicita il senso del pensiero circolare, un pensiero che non è mai un limite, ma un’opportunità, purché ci si disponga al suo interno in modo giusto.

Dobbiamo muoverci nel circolo, ma non si tratta né di un ripiego, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero, e nel non uscire da esso la sua festa, posto che il pensiero sia un mestiere. Non fa circolo soltanto il passo decisivo dall’opera all’arte – in quanto passo dall’arte all’opera – ma ognuno dei passi che arrischiamo fa circolo in questo circolo. (OPA, 4)

Che cosa vuol dire Heidegger con queste parole così lontane dal comune buon senso? Leggiamo una pagina dei Concetti fondamentali della metafisica dove lo stesso concetto appare più estesamente trattato:

L’intelletto comune può vedere e cogliere solamente quanto si trova in linea retta di fronte a lui, e quindi vuole muoversi costantemente in linea retta, da una cosa a quanto viene immediatamente dopo. Questo lo si chiama progresso. L’intelletto comune vede, anche in un movimento circolare, soltanto alla sua maniera, cioè si muove sulla circonferenza e prende l’andar in cerchio come un andar dritti, fino a che, improvvisamente, si imbatte nel punto di partenza, e allora se ne sta lì perplesso, perché questo non è affatto un progresso. Ma poiché il progresso è il criterio per comprendere la comprensione comune, ogni procedere in cerchio è già, a priori, un’obiezione, un segno di impossibilità. Nefasto è che nella stessa filosofia si lavori con questo argomento del movimento circolare. Questo argomento è il segno della tendenza ad abbassare la filosofia al livello dell’intelletto comune. Il movimento circolare della filosofia ha la sua essenzialità non nel percorrere una circonferenza e nel ritornare al punto di partenza, bensì nel guardare nel centro, che è possibile solamente nel procedere circolarmente. Questo centro, cioè il mezzo e il fondamento, si manifesta come centro soltanto in e per un cerchio intorno a esso. A questo carattere circolare del pensiero filosofico è connessa la sua ambiguità, che non può essere eliminata, né tantomeno appianata dalla dialettica. È caratteristico che nella filosofia e nella sua storia, ritroviamo sempre, e da ultimo in forma grandiosa e geniale, il tentativo di appianare per mezzo della dialettica questa circolarità e ambiguità del pensiero filosofico. Ma ogni sorta di dialettica è in filosofia l’espressione di un imbarazzo. (CFM, 244)

Ora vediamo concretamente come Heidegger imposta una questione filosofica.

La questione della cosa

Nel semestre invernale ’35-’36, quindi nello stesso periodo in cui sta preparando la conferenza sull’opera d’arte, Heidegger tiene un seminario su Kant, intitolato La questione della cosa. Anche qui l’introduzione è una lunga meditazione sul significato del pensare filosofico in opposizione al metodo scientifico e al pensiero metafisico tradizionale. Dal momento che la meditazione sul significato di filosofia in questo testo si sviluppa a partire dalla domanda sulla cosa o, meglio, dalla domanda sull’essere-cosa della cosa, che poi, tradotta in termini filosofici tecnici, è la domanda sulla questione dell’ente nel suo esser-ente, e dal momento che il problema della cosa apre anche il saggio sull’origine dell’opera d’arte, credo sia utile seguire nelle sue linee generali tale meditazione.

L’interrogare filosofico è profondamente diverso da quello scientifico, già lo sappiamo e lo abbiamo ripetutamente rimarcato. Ma in che cosa consiste, precisamente, questa diversità e, soprattutto, che cosa accade in noi, quando ci disponiamo a pensare, anziché semplicemente a conoscere, a fare, ad agire, a fabbricare, o a qualsivoglia altra occupazione? Che cosa ci accade quando non facciamo nient’altro che pensare? Forse perdiamo tempo e ci annoiamo; non avendo qualcosa di preciso da fare, forse addirittura ci angosciamo. Se, anziché semplicemente pensare, ci occupassimo di qualcosa, potremmo impiegare meglio e più proficuamente il tempo. Il pensiero scientifico, ad esempio, può porre in modo chiaro e immediato, fin dall’inizio, il suo oggetto e, a partire da tale posizione, progredire nella conoscenza. La filosofia, invece, pare caratterizzarsi per una assoluta e vuota generalità, sembra occuparsi, appunto, di tutto e di nulla. Prova ne è la domanda che apre il testo di Heidegger: “che cos’è una cosa“. Quando usiamo il termine “cosa”, pensiamo a ogni sorta di “cose”: un sasso, un bastone, una palla, ma, scrive Heidegger, anche il grande atrio di una stazione è una “cosa imponente”, anche in un campo ci sono molte “cose”, erbe, ortaggi, insetti. Anche il quadro appeso a una parete è una cosa. Un numero, una parola o uno stato d’animo, sono delle cose? Sembra più difficile definirle “cose”. Perché? Perché sono “cose” che non si possono né afferrare né vedere né sentire. Però subito ci accorgiamo che per negare a queste “cose” il carattere di cosa, le abbiamo chiamate genericamente proprio cose. Così Heidegger osserva:

Noi adoperiamo la parola cosa secondo due significati, l’uno più stretto, l’altro più ampio. Cosa nel senso più stretto significa ciò che è tangibile, visibile, e così via, ciò che è a portata di mano. Nel senso più ampio indica invece qualsiasi faccenda, ossia ciò con cui in un modo o nell’altro si ha a che fare, indica le cose che accadono nel mondo, i fatti, gli eventi. C’è infine un altro uso di questa parola, un significato amplissimo, che è stato a lungo preparato e che è divenuto consueto nel secolo XVIII, anzitutto nel linguaggio filosofico. Seguendo questo uso, Kant parla, ad es., della “cosa in sé” distinguendola dalla “cosa per noi”, cioè dall'”apparenza” o “fenomeno”. … Una cosa in sé, ad es., è Dio. … Quando Kant definisce Dio una cosa, non vuole mica dire che Dio è una gigantesca formazione aeriforme, che nasconde il suo essere in un qualche dove. “Cosa” significa qui, …, non altro che “qualcosa”, ossia ciò che non è niente. (QC, 42-43)

La plurivocità del termine “cosa” (cosa nel senso di ciò che è a portata di mano, cosa nel senso di ciò che è oggetto del nostro nominare e intendere, cosa nel senso del qualcosa in generale) richiede che la domanda “che cos’è una cosa” sia meglio precisata. Ed è quello che fa Heidegger, limitando l’uso del termine cosa al primo significato: le cose che ci stanno intorno. Ebbene, proprio questo non sembra farci fare molti passi in avanti, anzi, dice Heidegger, ci pone, in quanto filosofi, addirittura in imbarazzo, perché ora che abbiamo lasciato la genericità della cosa in astratto e siamo scesi sul terreno concreto delle cose quotidiane, ci accorgiamo che la scienza e la tecnica sanno definire proprio le cose che ci stanno intorno molto meglio di quanto lo sappia fare la filosofia.

Che cosa sia una pietra ce lo dicono nel modo migliore e più rapido la mineralogia e la chimica; che cosa una rosa o un arbusto lo apprendiamo con certezza dalla botanica; che cosa una rana o un falco ce lo descrive la zoologia. E su ciò che è una scarpa o un ferro di cavallo o un orologio, sono il calzolaio, il maniscalco e l’orologiaio a darci i migliori e più concreti ragguagli. (QC, 44)

Non possiamo trovare risposte migliori di quelle che gli specialisti ci sanno dare. Se tentiamo di rispondere alla domanda su cosa sono le molteplici cose che ci circondano saltando i dati di fatto corriamo il rischio di cadere nel pozzo e suscitare il riso delle servette.

L’esser-cosa della cosa

Evidentemente la filosofia cerca qualcosa di diverso da risposte precise. L’interrogazione filosofica non si accende per spegnersi subito in una risposta appagante. La domanda sulla cosa è, in realtà, una domanda sulla condizione d’essere della cosa, su ciò che rende cosa la cosa, sull’esser-cosa della cosa. E l’esser-cosa, che condiziona la cosa a esser-tale, non può a sua volta essere una cosa. Ciò che condiziona non può essere un condizionato. La filosofia pare presentarsi come ricerca dell’incondizionato-condizionante e con questo sembrerebbe che ci siamo riportati nell’iperuranio delle domande essenziali sottraendoci all’indiscreto redde rationem scientifico. Ma tale ricerca non conduce via dalla presenza delle cose, anzi, la filosofia pretende di cercare l’incondizionato proprio interrogando l’esser-cosa delle cose del mondo. Chiunque conosca il metodo scientifico e la sua volontà oggettivante sa bene che la ricerca dell’incondizionato è proprio ciò di cui tale metodo si è liberato, come di un ostacolo epistemologico fatale per ogni progresso. Ebbene la filosofia sembra, allora, ricercare proprio ciò che la scienza maggiormente teme e avversa. Tuttavia in ciò non vi è né ostilità né polemica nei confronti della scienza, né tantomeno concorrenza nei suoi confronti.

Ponendo il nostro problema non vogliamo né sostituire né correggere le scienze. … Questo interrogare suscita sempre l’apparenza di volere essere un sapere migliore rispetto a quello delle scienze. “Migliore” – questa parola indica sempre una differenza di grado entro uno stesso ambito. Col nostro interrogare ci poniamo invece fuori dell’ambito delle scienze, e il sapere, cui, così interrogando, aspiriamo non è migliore né peggiore, ma affatto diverso. Diverso dalla scienza, ma anche da ciò che si definisce “visione del mondo”. (QC, 47)

Si tratta di decidere se vogliamo sapere ciò che, secondo il comune modo di dire, non serve a niente. Se, rinunziando a questo sapere non poniamo il problema, tutto resta così com’è. Supereremo i nostri esami anche senza questo problema, anzi forse meglio. Se d’altra parte lo poniamo, non diventeremo da un giorno all’altro migliori botanici, migliori zoologi, migliori storici, giuristi, medici. Forse però migliori, o in ogni caso, per parlare più cautamente, diversi: diversi come insegnanti, come medici e giudici, sebbene anche allora, nella nostra professione, niente potremo fare con questa domanda. (QC, 46-47)

Adesso che Heidegger ci ha assicurato che la filosofia non vuole fare concorrenza alla scienza e che il filosofare, dunque, non è un’occupazione mistica, antiscientifica e magari anche un po’ oscurantista, possiamo procedere più sicuri. Sembra, anche, che l’oggetto della filosofia sia stato sufficientemente determinato, dal momento che nel nostro filosofare interroghiamo la cosa nel suo significato più stretto (la cosa materiale, incontrabile) e che tale interrogazione verte intorno all’esser-cosa della cosa incontrabile. Tuttavia ci accorgiamo subito di una difficoltà: in nessun luogo noi incontriamo la cosa, ma solo le “singole cose”, queste o quelle. Dov’è la “cosa” che vogliamo interrogare? È in noi, forse? Noi ci imbattiamo sempre nelle singole cose e in seguito a tale incontro, a posteriori, costruiamo l’universale, il concetto (cioè l’esser-cosa). Oppure questo esser-cosa delle cose è nelle cose stesse, che, pur venendoci incontro come singole (accidentalmente o essenzialmente?), portano già in sé la cosalità? E che cos’è, poi, la singolarità o l’esser-questo della cosa?

La singolarità come orizzonte di apparizione della cosa

La penna non è mai la penna in generale, ma sempre una ben determinata penna, proprio questa penna. Ogni cosa, quindi, è sempre questa e non altra. Ma allora il “questo”, la singolarità, sembra proprio essere ciò che pertiene alla cosa in quanto cosa e, a ben guardare, è proprio ciò che la scienza, nella sua conoscenza della realtà oggettiva, tralascia. È una determinatezza da cui prescindono le scienze, le quali, nel loro zelo per i fatti, apparentemente conoscono dettagliatamente le cose.

E infatti in una ricerca sulle labiate il botanico si occupa non di una pianta singola in quanto tale: essa è per lui sempre solo un esemplare. E lo stesso vale per un animale, per le innumerevoli rane e salamandre che vengono uccise in un Istituto. Il “questo” che caratterizza ogni cosa è tralasciato dalla scienza. (QC, 51)

Le scienze si occupano, di leggi generali: il caso singolo deve essere riportato alla regola generale. Tutti i corpi cadono alla stessa velocità, indipendentemente da ciò che sono singolarmente presi. È ben strano il fatto che la filosofia, che ci pareva persa nelle nebbie dell’iperuranio, si ritrovi in mano la singolarità, mentre le scienze, che reclamano per loro la verità oggettiva, si ritrovino in mano le cose in generale.

Riflettiamo su ciò che è implicito nell’esser-questo (singolarità) di una cosa. Che cosa significa dire che una cosa è sempre “questa cosa”? Nel “questo” – scrive Heidegger – è implicito il mostrare, l’indicare, perché “questo” è un pronome dimostrativo e significa propriamente: qui, nell’immediata vicinanza. Nell’immediata vicinanza di chi? Nostra, di noi, che indichiamo. Ma, allora, il “questo” non è o non sembra essere, come avevamo osservato prima, una determinazione o qualità della cosa stessa (per esprimerci in termini tecnici: il “questo” non è un predicato reale della cosa), dal momento che il “questo” è un cogliere le cose solo in quanto sono oggetto di un’indicazione. Le cose, per essere “queste cose”, quindi per essere ciò che sono, hanno bisogno della nostra presenza. Eravamo partiti dal voler interrogare le cose stesse, le cose nel loro esser-cosa e ci ritroviamo fra le mani non l’essenza della cosa, il suo che cos’è, la determinazione essenziale della cosa, ma quella che ha tutto l’aspetto di una aggiunta soggettiva, nostra. Ma così riconosciamo implicitamente la fondatezza dei sospetti della scienza verso l’interrogare filosofico, un interrogare impuro, che non sa adeguatamente separare soggetto e oggetto e che, proprio per questo, è arbitrario e non rigoroso.

Il “questo” è una determinazione soggettiva delle cose. Ma, se il “questo” è una determinazione della cosa in quanto la cosa è da noi indicata come ciò-che-ci-sta-di-fronte, allora il “questo” è anche una determinazione oggettiva per eccellenza, perché objectum significa ciò-che-è-gettato-di-fronte. Lo stesso “questo” è oggettivo e soggettivo. Lo stesso sono soggetto e oggetto. Ma che tipo di verità ci può fornire questo miscuglio di determinazioni opposte? Forse – come scrive Heidegger – siamo prossimi a cadere nel pozzo e a suscitare il riso delle servette (il senso comune).

Il terreno ci frana sotto. Forse siamo già prossimi a cadere nel pozzo. In ogni caso già ridono le servette, se non anche noi stessi, in questo simili alle servette, quando tacitamente dentro di noi reputiamo che tutto questo discorrere sul “questo” e su cose consimili sia solo un vuoto almanaccare. Certo sarebbe ancor peggio – non per la nostra vita di tutti i giorni, ma per la filosofia – se noi cercassimo di sottrarci con qualche sotterfugio a questa così caratteristica situazione di imbarazzo. (QC, 62)

Dobbiamo uscire al più presto da questa impasse. È necessario veder-chiaro, non rimanere in questo stato di confusione. (Non è detto, però, che proprio questo coimplicarsi di soggettivo e oggettivo, non indichi in qualche modo qualcosa di essenziale). Tuttavia il senso comune vuole che non ci sia verità dove c’è confusione, dove non c’è chiarezza. E proprio la verità è, invece, ciò che noi vogliamo, una verità sulle cose che abbia la stessa forza e certezza di quella che ci dà la scienza.

Abbiamo parlato di verità e subito ci viene in mente la definizione tradizionale di verità: veritas est adaequatio intellectus et rei, la verità è la conformità di intelletto (o proposizione, se estrinsechiamo il nostro giudizio in una frase) e cosa. Ebbene, proprio sulla base di tale definizione di verità, quella strana determinazione mista soggettivo-oggettiva che è il “questo” mostra l’infondatezza della sua pretesa a essere la verità della cosa. È precario ed effimero, infatti, il rapporto fra verità e singolarità. Se scriviamo su un foglietto “la penna è qui” e lo attacchiamo alla penna, abbiamo una proposizione conforme allo stato delle cose, siamo in presenza della verità. Ma se il foglietto vola via di qui e si posa laggiù, la verità della proposizione si trasforma subito in non verità. Forse perché abbiamo tralasciato l’indicazione temporale. Scriviamo, allora “La penna ora è qui”. Questa verità resiste finché non me ne vado riponendo la penna nella cartella. Da quel momento, infatti, la proposizione scritta sul foglietto diventa una non verità. Ma la verità – si chiede Heidegger -si riferisce alla cosa come alcunché di estraneo? È un qualcosa che le si possa attaccar su come un foglietto o non è la cosa stessa a stare saldamente nella verità? Non rispondiamo, per ora, a tale domanda.

L’unica cosa che sembra certa è che, finora, l’interrogare filosofico ci ha condotti in una specie di limbo, in un luogo soggettivo e oggettivo nello stesso tempo, o in un luogo né soggettivo né oggettivo, un ambito in cui le cose ci stanno di fronte (oggetti) e al quale apparteniamo anche noi, i presunti soggetti. La domanda filosofica ci ha condotti davanti al “questo”, alla singolarità, e il “questo” ci ha introdotti in un ambito problematico in cui la distinzione soggetto-oggetto, uomo-mondo, pensiero-essere, si fa incerta.

Forse, però, non ci siamo del tutto persi. Il “questo”, la singolarità ci ha sì condotti in uno spazio strano, intermedio, ma di questo spazio sembra essere solo la cornice, l’orizzonte di apparizione, ciò che costituisce un ambito fenomenico, il luogo dell’apparire. Tutto ci sembra incerto, ci suggerisce il nostro buon senso, perché, anziché occuparci delle cose, degli enti che in tale spazio sussistono, ci ostiniamo a tematizzare la linea di orizzonte; anziché guardare le cose illuminate guardiamo la luce che illumina, anziché guardare le cose singole, guardiamo la singolarità delle cose. Ed effettivamente il nostro buon senso ha ragione: la luce che illumina le cose non può essere guardata allo stesso modo in cui guardiamo le cose illuminate. Anzi, forse non può in alcun modo essere guardata e bisogna rivolgersi a essa in altro modo. Ma questo è un altro discorso. Diamo retta al nostro buon senso e, senza lasciare l’orizzonte del questo (semplicemente dimentichiamolo), occupiamoci finalmente delle cose.

La singolarità come determinazione accidentale

Riformuliamo, allora, la domanda iniziale “che cos’è una cosa” e dimentichiamo l’orizzonte del “questo”. Non per questo le cose cessano di essere singole cose. La penna che tengo in mano ha la sua durezza, il suo colore, la sua forma, il suo peso, e così via. È proprio “questa penna”: solo che ora il “questo” non è più assunto in quanto tale, ma è tutto dentro, quasi nascosto, requisito, esaurito nell’ente penna e nelle sue proprietà. Possiamo procedere nei confronti di ogni altro ente allo stesso modo della penna. Tutti gli enti ci si danno come enti singoli, come dei “questi”, e tale singolarità è raccolta e custodita dalle proprietà molteplici e di volta in volta diverse. Ecco finalmente una verità valida per tutti gli enti e tale verità l’abbiamo conquistata perché, come scrive Heidegger, ora, riguardo agli enti,

badiamo solo a ciò che sono in generale: vediamo allora sempre qualcosa con queste e quelle proprietà, costituito in questo o quel modo. Siffatto qualcosa è il sostrato delle proprietà; esso, per dir così, sta sotto le sue qualità; è ciò che permane, e noi, nel constatarne le proprietà, sempre di nuovo ad esso ci riferiamo come a ciò che resta il medesimo. Così sono dunque le cose stesse. Che è allora una cosa? Un nucleo, intorno al quale stanno molte mutevoli proprietà, un sostrato su cui queste poggiano, qualcosa che possiede, che ha in sé altro. Comunque la si giri e la si rivolti, la cosa mostra questa struttura; e attorno ad essa, come una cornice, stanno spazio e tempo. (QC, 66)

Il “questo” la singolarità che ci turbava, che ci aveva collocati in un ambito di confusione, in cui soggetto e oggetto si co-appartenevano e che proprio per questo rimaneva impensabile, ce lo siamo reso disponibile e, quindi, pensabile, l’abbiamo reso concreto, visibile, manipolabile, rinchiudendolo nella gabbia delle proprietà. Ecco ciò che l’interrogazione dell’esperienza quotidiana, finalmente corretta e sensata, ci fornisce: niente di meno che la tanto agognata essenza della cosa, la cosa è sostanza più accidenti. È un buon punto di partenza per il successivo lavoro sgrossante delle scienze, volto a purificare la cosa da tutti gli accidenti o, perlomeno, da quegli accidenti che non servono allo scopo, per fare di essa l’oggetto dell’analisi scientifica. Altroché ostilità fra scienza e filosofia! La filosofia si è acquisita, rendendo pensabile la cosa, la benemerenza di un grande servizio reso alla scienza.

Ci rimane solo una piccola domanda: era il caso di perdere tutto questo tempo per giungere a una definizione della cosalità come sostrato delle proprietà che già Platone e Aristotele avevano affermato? E che Kant, nella Critica della ragion pura aveva addirittura enunciato come un principio?La legittimità di questa definizione dell’essenza della cosa trova poi conferma dalla sua omologia con l’essenza della proposizione: tutti sappiamo che la proposizione, nella sua struttura di base, può essere definita come soggetto più predicati. Ecco che troviamo, finalmente, chiarita anche l’essenza della verità come adaequatio: stato delle cose e proposizione hanno la stessa struttura, la prima è sostanza più accidenti, la seconda è soggetto più predicati.

Solo dopo aver abbandonato l’infruttuosa tematica del “questo” come condizione della cosa, un “questo” che, non essendo qualcosa, è mero niente, un questo e una singolarità che un po’ ci angosciava e molto ci annoiava, siamo pervenuti a tutta questa chiarezza. Tutto ciò è talmente naturale da non dover essere più ulteriormente discusso. Se non fosse per il fatto che, se riflettiamo su ciò che è naturale, quasi sempre ci accorgiamo che il “naturale” non è affatto naturale. Il “naturale” è, infatti, sempre storico: nell’illuminismo era naturale tutto ciò che poteva essere dimostrato dalla ragione, ma alcuni secoli prima, nel medioevo, naturale era tutto ciò che riceveva la sua essenza da Dio.

Perciò la “visione naturale del mondo”, cui costantemente ci richiamiamo, non è di per sé evidente. È anzi problematica. Questo abusato “naturale” è in senso eminente storico. Potrebbe darsi quindi che mentre la nostra visione del mondo è dominata da una secolare interpretazione dell’essere della cosa in generale, le cose stesse intanto ci vengono incontro in tutt’altro modo. (QC, 72)

Se questo è vero, forse ciò che comporta l’affidarsi alla visione naturale del mondo è il mancare un rapporto veramente originario con le cose. Forse l’aver lasciato quel limbo di identità e differenza fra noi e le cose in cui l’incontro con la singolarità della cosa ci aveva introdotti, il non aver saputo o voluto collocarsi in esso nel giusto modo perché veniva “offesa” la nostra naturale esigenza di chiarezza, ci ha portati troppo lontani o troppo vicini alle cose stesse, in realtà, mai alla loro presenza.

Filosofia come libertà dell’esser-ci

Tuttavia, anche se così fosse, non è il caso di preoccuparci molto. Non succede niente se il rapporto con le cose stesse soccombe al “naturale”. Possiamo vivere benissimo senza filosofare, anzi forse possiamo addirittura vivere meglio, sicuramente possiamo operare e conoscere con più velocità ed efficienza se, liberi dal peso delle cose, ci industriamo a manipolare oggetti. In ogni caso – scrive Heidegger – il tram continuerà a viaggiare,

perché le decisioni (quella di incontrare le cose stesse, innanzitutto), vengano prese o non, riguardano non il tram e la motocicletta, ma un altro ambito – quello della libertà storica, dove l’esserci storicamente determinato decide della sua ragion d’essere e del modo in cui sceglie il grado di libertà del proprio sapere e ciò che intende come libertà. (QC, 73)

L’interrogare filosofico non riguarda gli enti, ma la libertà dell’esserci.

Ecco perché il nostro procedere alla ri-cerca di una definizione soddisfacente di cosa, mancava sempre il bersaglio. Qualunque definizione di cosa mettiamo in campo, sia che abbia l’autorevolezza di una lunga tradizione, sia che abbia la certezza del metodo scientifico, la nostra domanda “che cos’è una cosa?” torna a riproporsi sempre di nuovo.

Essa è una domanda che non esige una risposta, è una domanda che non vuole una proposizione vera in cui definitivamente acquietarsi, ma che richiede un mutamento della nostra posizione fondamentale riguardo alle cose o, come scrive Heidegger, “un mutamento dell’esser-ci in mezzo all’ente.” (QC, 81).

Il non interrogarsi filosoficamente sulle cose distoglie l’uomo dall’essere e lo consegna agli enti. Ciò che ne va per l’uomo è innanzitutto l’incomprensione della propria storia e del proprio mondo.

Perché nelle nostre scuole superiori il modo di trattare e di interpretare i poeti è da decenni così avvilente? Risposta: perché gli insegnanti non sanno nulla della differenza fra una cosa e una poesia, perché trattano le poesie come cose, e questo perché non si sono mai interessati al problema di ciò che è una cosa. Che oggi si legga più l’epica dei Nibelunghi e meno Omero, può avere le sue ragioni, ma nulla è cambiato con questo: è sempre lo stesso avvilimento – prima con il greco, adesso con il tedesco. (QC, 82)

Incontreremo nel saggio sull’opera d’arte la problematica connessione di cosa e opera d’arte e ne seguiremo la magistrale meditazione heideggeriana. Prima, però, è bene ricordare l’esito di questa prima meditazione sulla cosa o, il che è lo stesso, di questa prima meditazione sull’interrogare filosofico. Ciò che è venuto in luce è, in primo luogo, l’impossibilità per ogni pensiero rappresentativo di interrogarsi sull’essere dell’ente: tale interrogazione non è un affare della conoscenza, ma riguarda la libertà, non chiede proposizioni, ma disposizione e decisioni, perché pone l’esser-ci di fronte al mondo. La situazione dell’esser-ci non è tuttavia nulla di soggettivo, soprattutto in ciò che sommamente può apparire tale: la situazione affettiva, quella che, impropriamente e provvisoriamente, possiamo chiamare emotività o sentimento. Proprio il sentimento può apparire una categoria squisitamente estetica, soprattutto se ci interessiamo della psicologia dell’arte, e proprio Heidegger nel § 34 di Essere e tempo sembra autorizzarci a legare strettamente arte ed emotività:

Parlando, l’Esserci si esprime; non perché sia dapprima incapsulato in un “dentro” contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già “fuori”. Ciò che viene espresso è proprio l’esser-fuori, il modo particolare della sua situazione emotiva (la tonalità emotiva) che, come abbiamo già chiarito, investe in pieno l’apertura dell’in-essere. L’indice linguistico della rivelazione della situazione emotiva dell’in-essere da parte del discorso è costituito dalla cadenza, dalla modulazione, dal “tempo” del discorso, dal “modo di parlare”. La comunicazione delle possibilità esistenziali della situazione emotiva, cioè l’apertura dell’esistenza, può costituire il fine specifico del discorso “poetico”. (ET, 205-206)

Per non fraintendere questa concezione di Heidegger come una delle tante versioni della concezione dell’arte come espressione del sentimento, per mostrare come l’interrogare filosofico sia connesso all’apertura del mondo che si opera a partire dalla situazione affettiva e consista, dunque, in quello che Heidegger chiama il “destare uno stato d’animo fondamentale”, è essenziale che noi ci volgiamo brevemente a considerare l’ontologia esistenziale di Essere e tempo. Il saggio sull’origine dell’opera d’arte guarda lo stesso luogo originario del pensiero. L’ambito proprio del pensiero filosofico, che è il luogo della nostalgia e della finitezza, secondo due altre definizioni della filosofia stessa che Heidegger ci regala.

Poiché è il più radicale libero sforzo della finitezza dell’uomo, nella sua essenza la filosofia è più finita di qualsiasi altra cosa. (M. Heidegger, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 1990, p. 24)

La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque. (CFM, 10)

 

 

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