Cosa, opera e verità nell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger – 7 (fine)

Il concetto di terra

Terra o materia?

Perché Heidegger usa il termine terra e non quello di materia? È corretto identificare terra e sensibile? C’è un nesso fra l’anatema che da sempre grava sul sensibile nella tradizione filosofica e la scarsa considerazione di cui la terra ha goduto in questa stessa tradizione, lasciata, unica fra gli elementi, priva di difensori?

Tutti gli elementi hanno quindi trovato un loro sostenitore, tranne la terra; questa nessuno la indica eccetto chi ha affermato che l’anima è costituita da tutti gli elementi o si identifica con tutti gli elementi. (Aristotele, De anima, A2, 405b, 18)

Lo stesso Bachelard trova nella materia terrestre difficoltà e paradossi. Hannah Arendt, poi, nell’introduzione a Vita Activa lega la condizione umana proprio alla terra e la contrappone alla tendenza verso l’universale che sta alla base dell’impresa scientifica. Quanto ha a che fare il desiderio di staccarsi dalla terra per attingere il punto di vista dell’universale (cioè nessun punto di vista) e la condanna del sensibile, la rimozione dell’animale in noi che la scienza persegue? Insomma, dietro l’aggressione al sensibile sembra quasi sempre esserci un’aggressione alla terra, dietro un rifiuto della terra e della condizione umana si nasconde sempre una sfiducia nei confronti del sensibile.

La dottrina dei quattro elementi: coglie la terra non come un qualcosa in generale, come un sostrato inerte di qualità sensibili (materia indeterminata), ma come un carattere specifico dell’essente, attribuendole peso, inerzia, resistenza, persistenza, solidità, densità, chiusura e intimità, ecc. Terra, quindi, è un concetto specifico, non generico e neutrale come materia. Solo la materia, per diventare qualcosa di determinato, ha bisogno che le venga impressa una certa forma o, se vogliamo dire altrimenti, solo una materia astratta, indifferente, generica può incarnare una forma altrettanto astratta. Solo la materia può essere concepita come amorfa, mai la terra, che è sempre di volta in volta qualcosa di determinato e di specifico, qualcosa di differente. La terra è sempre questa terra e dietro questa terra, per quanto cerchi, non si potrà trovare altro che questa terra, sempre, fino all’ultima possibile divisione e frammentazione. La singolarità e la differenza in cui sempre si presenta la terra la rende irriducibile a qualcosa d’altro da sé.

(Per un approfondimento dei temi trattati in questo articolo, v. Wolfgang Welsh, La “Terra” nella determinazione heideggeriana dell’opera d’arte, in Rivista di estetica, n. 7, Rosenberg & Sellier)

I cinque caratteri della Terra

Allora, il punto fondamentale da cui partire è l’irriducibile determinatezza in cui si presenta di volta in volta la terra.

La terra non è un neutrale sostrato di materialità, ma un’intima dotazione di forma. Nessun artista descriverebbe mai il proprio “fare” come l’imprimere una forma a una materia amorfa. Il marmo per lo scultore, il colore per il pittore, i materiali da costruzione per l’architetto, le parole per il poeta, i suoni nella loro sorgente materiale per il musicista, non sono mai materia inerte e indifferente. Nessuno è più lontano dall’arte di chi crede che il lavoro dell’artista significhi formare e figurare a partire da ciò che è informe. L’artista trae la sua forma sempre da qualcosa di determinato, di specifico: nel suo figurare e nel suo formare l’artista si confronta sempre con la singolarità irriducibile della materia, appunto con la terra e non con la semplice materia. Non solo la stessa forma impressa nel marmo o nel bronzo sono fra loro profondamente differenti, ma anche il marmo non è mai semplicemente marmo, ma sempre “questo marmo”. Non c’è nessuna forma nella testa dell’artista o in qualche iperuranio ideale che egli poi incarni in una materia. L’artista ha sempre a che fare con un materiale che è intimamente dotato di forma, supremamente e irriducibilmente singolare, con una terra che non è genericamente gialla o rossa, ma sempre quel giallo e quel rosso, un giallo e un rosso che non possono mai essere piegati a sostanziare una forma che a loro viene imposta.

Legata all’irriducibile determinatezza della terra è anche la sua infinita ricchezza. Se la terra si presenta sempre come qualcosa di singolare e di differente il suo essere proprio sarà quello della molteplicità.

L’autochiudersi della Terra non è per nulla una chiusura uniforme e rigida; esso si svolge in una pienezza inesauribile di maniere e forme semplici. (OPA, 32)

L’irriducibilità della terra è, ancora, ciò che vincola l’attenzione a essa, opponendosi a qualsiasi intenzione sorpassante.

La pietra è greve e denuncia così il suo pesantore. Ma questo pesantore, mentre ci si contrappone, ci rifiuta ogni penetrazione in se stesso. Se tentiamo di coglierlo facendo a pezzi la pietra, i frammenti non ci riveleranno mai qualcosa di interno. La pietra si ritira nella costante impenetrabilità e nella gravezza dei suoi frammenti. Se cercheremo di raggiungere il nostro scopo ricorrendo a una bilancia, il pesantore si perderà nel calcolo di un peso. Avremo senz’altro ottenuta una determinazione numerica, ma il pesantore ci sarà sfuggito. Il colore splende e vuol solo splendere. Quando pretenderemo di scomporlo in un calcolo di vibrazioni, ci sarà di già sfuggito. Esso si manifesta solo se resta integro e inesplicito. La Terra destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa e condanna al fallimento ogni indiscrezione calcolatrice. (OPA, 32)

La Terra tollera solo un incontro rispettoso, solo uno sguardo non osceno le si confà. Cercare di imporre al sensibile una rete logico-esplicativa al fine di chiarirlo, di sottrarlo all’oscurità, equivale a perdere lo spessore stesso, la concretezza propria del fenomeno. Le qualità sensibili, la terra del mondo, vogliono solo essere accolte come tali, senza spiegazioni o giustificazioni. Ciò è stato visto come qualcosa di negativo dalla tradizione razionalistica, che, proprio per questo, ha dichiarato oscure e resistenti alla spiegazione concettuale e alla chiarezza definitiva queste qualità. Sia Heidegger che i pensatori razionalisti colgono, dunque, l’irriducibilità come un carattere proprio delle qualità sensibili, ma mentre per Heidegger tale fatto indica qualcosa che è degno di considerazione e di rispetto, un’occasione per il pensiero, per il filosofo razionalista è scandalo, pietra d’inciampo, perché davanti a esse il pensiero è costretto a segnare il passo.

Un altro carattere è lo starsene in sé delle qualità sensibili.

Tutte le cose della Terra, essa stessa nel suo tutto, scorrono in un reciproco accordo. Ma questo scorrere non è un dissolversi. Ciò che qui scorre è il pacato corso della delimitazione che confina ogni essente-presente nel suo esser-presente. Così, in ognuna delle cose chiuse in se stesse si accampa un identico non conoscersi. La Terra è l’autochiudentesi per essenza. Porre-qui la Terra significa: porla nell’Aperto come l’autochiudentesi. (OPA, 32)

Che cosa rende confusi e oscuri i concetti delle qualità sensibili? Il fatto che essi non si possono differenziare gli uni dagli altri. Come la differenza fra il rosso ed il giallo è chiarissima da un punto di vista percettivo, così è inesprimibile concettualmente. Questo sottrarsi, già notato, delle qualità sensibili a ogni spiegazione, questo loro starsene in sé, in ciò che è proprio, ha, come correlato il loro non conoscere-il-resto, il loro essere confinate, in quanto tali, nella pura presenza, nella piena e positiva determinatezza.

La terra, allora, non indica soltanto la figura di un sorgere, di un venire alla presenza. In questa presenza essa è tutta risolta e, perciò, proprio nel sorgere, proprio nella presenza, indica un chiudersi e un nascondersi. È ciò che Heidegger chiama la figura emergente-custodente della terra. Qui è implicito il senso di natura come phýsis, che Heidegger attinge dall’esperienza greca dell’essere. E phýsis indica il sorgere iniziale e naturale di ogni cosa.

Questo venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, è ciò che i greci chiamarono originariamente phýsis. Essa illumina a un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo la Terra. Da ciò che intendiamo con questo termine occorre tener ben lontano ogni idea di massa materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico. La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è-presente la Terra come la nascondente-proteggente. (OPA, 27-28)

Irriducibilità delle qualità sensibili

Solo i due aspetti presi insieme dell’emergere e del custodire o rinchiudere formano il concetto di Terra. È necessario comprendere che cosa significhi tutto ciò. Nell’emergere di una qualità sensibile c’è sì il venire alla presenza, ma questo non avviene mai come qualcosa che appare sradicandosi dal suo fondo. Un colore si dispiega e risplende, senza diventare in questo emergere più incerto e fuggevole. Ciò che sorge si occulta e ritorna sempre nel suo sorgere. Una qualità sensibile è sempre pienamente ciò che è, non è mai sentita come mancante di qualcosa e bisognosa di completamento.

Prendiamo la cosiddetta valenza simbolica dei colori, ad esempio la profondità dell’azzurro, l’aggressività del rosso, e così via. Se non vogliamo intendere tale valenza come qualcosa di allegorico, cioè come il fatto che un colore indica un significato che esiste al di fuori di esso, dobbiamo comprendere che il rosso conserva interamente in sé la sua aggressività, che l’azzurro mantiene nella sua presenza e solo in essa la sua profondità. Se noi stacchiamo aggressività e profondità dal rosso e dall’azzurro, non saranno più questa aggressività e questa profondità, ma semplicemente aggressività e profondità in generale. Allora, tutto quanto appartiene alla Terra non è solo ciò che, nel manifestarsi, si chiude, nel modo in cui lo abbiamo compreso precedentemente, cioè come l’irriducibile a qualunque analisi, a qualunque riduzione alla comprensione dispiegata, ma è anche e soprattutto ciò che si rende indisponibile alla separazione dalla cornice sensibile-terrestre dei suoi significati.

Il significato del terrestre, del sensibile non può mai darsi come qualcosa di separato e di fluttuante, ma sempre sboccia nella carne e nella densità del suo sorgere. Perciò il sorgere e la conservazione protettiva sono lo stesso: ciò che sorge, proprio nel suo emergere, si appropria, si lega indissolubilmente alla propria singolarità. Il sorgere non è mai l’emergere di qualcosa che stava al fondo, di qualcosa che era già ciò che ora, nella presenza, è; questo sarebbe un modo sostanzialistico di comprendere il fenomeno sensibile, un modo che rende il qualcosa che il fenomeno è del tutto indipendente dal suo essere, cioè dal suo sorgere, dal suo venire alla presenza. In realtà, ciò che si mostra ha soltanto se stesso come “sostrato”, non è annuncio di qualcosa, ma esso stesso, in senso stretto, fenomeno, ciò-che-annuncia-se-stesso. In questo sta la ragione del fatto che la terra, il sensibile, non esige affatto un pensare, nel senso del calcolare e del rappresentare, ma un pensare nel senso del vedere, del cogliere.

L’opera d’arte come pro-duzione del sensibile

Heidegger afferma che l’opera d’arte presenta e rende manifesto per quel che è proprio l’elemento terrestre, quell’elemento che in altri contesti di apparizione, in altri enti, pensiamo al mezzo, non si presenta, dunque, nel suo modo proprio. Solo nell’opera d’arte gli è consentito di emergere secondo i suoi modi e di essere ciò che esso è.

L’opera lascia che la terra sia una terra. (OPA, 31)

L’elemento terrestre trova nell’opera d’arte il luogo proprio della sua presenza, in quanto esso non è sfruttato, come nel mezzo, né ridotto o addirittura negato, come nell’oggetto della scienza, né reso indifferente e insignificante, come nella mera cosa. Solo lasciando essere la terra l’opera d’arte è un’opera d’arte; solo facendosi il luogo della manifestazione del sensibile l’opera d’arte è propriamente tale. Su questa base opera d’arte e strumento sono fra loro profondamente diversi: lo strumento non lascia essere ciò che è attinente alla terra, al sensibile, ma lo costringe a sottostare a esigenze a esso estranee, lo piega a un uso. Nella morbidezza e nella resistenza del cuoio delle scarpe emerge certamente una qualità propria della terra e del sensibile, ma morbidezza e resistenza non appaiono in quanto tali, ma solo per il loro effetto, solo nell’uso. Nell’opera d’arte, invece, la qualità è del tutto libera, la resistenza di un materiale non viene percepita usando l’opera, ma si dà a vedere nella pura presenzialità dell’opera stessa. Lo strumento è riconducibile allo schema materia-forma, esso è propriamente, come cosa, materia formata. L’opera d’arte, invece, non può mai sottostare a questo schema: nel momento in cui, per l’opera d’arte, si pone la dicotomia materia-forma con la prevalenza dell’una sull’altra, ma anche con l’equilibrio e la conciliazione di queste due istanze, nel momento, insomma, in cui l’opera d’arte appare, nella sua cosalità, come materia formata, comunque si dia la relazione materia-forma, l’opera d’arte è fallita, perché si sottrae al suo essere proprio, che è quello di esibire il sensibile, cioè il sommamente singolare, l’irriducibilmente determinato, per il quale non si pone in alcun modo un sostrato amorfo, da un lato, e una sussistenza puramente formale, dall’altro. Il sensibile non è mai carne di una forma, materia plasmabile, poiché esso è già sempre, nel suo sorgere e nel suo presentarsi, questo determinato essere.

Terra come concetto ontologico

Se noi torniamo al problema iniziale, la cosalità dell’opera, possiamo ora dire che tale cosalità, per l’opera non è mai la materialità, ma la terrestrità. Il suo carattere di cosa non deve essere compreso come qualcosa di materiale, ma come qualcosa che attiene strettamente e propriamente alla terra.

Ciò che nell’opera, presa come oggetto, ha l’aspetto della cosalità, nel senso del concetto abituale di cosa, se è considerato in base all’opera è la terrestrità dell’opera. (OPA, 53)

Da quest’ultima citazione emerge un fatto importante: Terra non è un concetto appartenente preliminarmente alla teoria dell’arte, non è un concetto estetico, ma ontologico, volto alla costituzione dell’esser-cosa della cosa. Siamo andati alla ricerca della cosalità delle cose con l’aiuto delle tradizionali teorie dell’ente (cosa come sostanza + accidenti, cosa come insieme di sensazioni, cosa come materia formata); abbiamo preso in considerazione il concetto di cosa che sembrava più prossimo a quello dell’opera d’arte (cosa come materia formata), ma abbiamo constatato come tale concetto appartenesse in realtà alla regione strumentale piuttosto che a quella dell’opera. L’opera, tuttavia, ci ha permesso di avvicinare il mezzo nel suo essere proprio, ci ha s-velato che cos’è il mezzo. In questa ricerca siamo venuti a incontrare due nozioni fondamentali, quelli di mondo e terra. Nell’analisi del concetto di terra, da noi assimilato al sensibile e, perciò stesso, distinto da quello di materia, viziato di sostanzialismo, abbiamo messo in rilievo i tratti fenomenologici di tale concetto, sottolineando come solo nell’opera d’arte la terra si dia propriamente come tale, nella sua libertà.

È come terrestrità che l’esser-cosa dell’opera propriamente si costituisce. Tutte le determinazioni classiche della cosa si dimostravano, alla fine, come sopraffazioni della cosa, incuranti della cosalità stessa della cosa, sottomessa di volta in volta a esigenze razionali, o percettivo-soggettivistiche o, infine, strumentali-utilitaristiche. Terra è, invece, un concetto ontologico che cerca di caratterizzare quanto vi è di propriamente essenziale nelle cose.

L’intrinseca molteplicità dell’essere

In che modo dev’essere vista la cosa, se deve anzitutto essere concepita come attinenza alla terra? Che cosa comporta per la cosa l’essere compresa in termini di irriducibilità, di chiusura, di singolarità, di intimo e inscindibile coappartenersi di sorgere e proteggere? Innanzitutto il fatto che non si può parlare di cosa, ma sempre e solo di cose. Non c’è la cosa, ci sono invece le cose: la molteplicità in cui le cose si danno non è mai la molteplicità di un’unità preliminare, ma sempre una molteplicità originaria. La differenza, della quale ogni cosa è portatrice, non può mai disperdersi nella generalità. A differenza della materia, che si presta a essere compresa come sostrato indifferente, che viene di volta in volta determinato come qualcosa, e per la quale, quindi, la molteplicità è un accidente, la Terra non è mai il concetto di qualcosa di comune, ma sempre di qualcosa che è ogni volta specificamente diverso.

Vi è tuttavia un senso unitario nel concetto heideggeriano di terra, senza che tale unità comprometta o pregiudichi la molteplicità ed è la coappartenenza dell’emergere e del chiudersi: è proprio in ciò che si dà la specificità di quanto è terra. Il sorgere è sempre il venir fuori di ciò che è proprio, di ciò che, nel momento del conservare è raccolto in sé. L’incontro con le cose, allora, non è mai l’incontro con un sensibile caotico che deve essere inserito nelle strutture normative della ratio (Kant) né con lo spirito nella forma della sua estraniazione, che deve essere penetrato e ricondotto a sé (Hegel). La cosa non può mai essere costruita (come l’oggetto), non può mai essere compresa a priori. Deve sempre essere incontrata e accolta nel modo in cui si dà, irriducibile a ogni determinazione che non la lasci riposare e consistere in sé.

Terrestrità dell’opera d’arte

La specificità dell’opera d’arte sta nel fatto che in essa il momento della terra, che nella pratica e nell’esperienza usuale resta coperto e contraffatto, emerge come tale e diviene manifesto. L’opera d’arte è propriamente terra, perciò essa è il luogo della rivelazione (non un mezzo per rivelare) della terra stessa. Ma in che misura la terra sorge nell’opera d’arte e in che misura il significato dell’opera accade proprio a partire da tale liberazione e come un parlare della terra? L’opera d’arte non è mai l’incarnazione sensibile di un’idea: non si può mai dire che un’opera esprima serenità, tristezza, tragedia, il tramonto, la disperazione, la melanconia, e così via, anche se ha un titolo che potrebbe obbligare a vedere in essa proprio l’espressione di un’idea.

La salvaguardia del sensibile

La seconda sinfonia di Mahler porta come titolo La Resurrezione, dalla poesia di Klopstock inserita nel suo ultimo movimento: nessuno tuttavia può seriamente sostenere che in questa sinfonia si esprima il senso della resurrezione. L’intimo tema di un’opera d’arte è sempre il sensibile, la pietra, il bronzo, il colore, il suono, ecc. Sempre il sensibile, la terra. Lo scultore, o il musicista, porta sempre alla presenza l’essere della pietra, di quel blocco di marmo, l’essere del suono, del suono di quel violino, di quell‘oboe, di quel pianoforte. La scultura di Michelangelo non è mai l’imprimere una forma al marmo. Michelangelo non scolpisce Mosè: egli scolpisce l’intima forma e l’accadere della pietra, della pietra come la vede qui e ora e come ne fa esperienza nel plasmare. Ecco perché qualunque cosa si dia a vedere nell’opera d’arte e comunque si dia, come forma definita e magari etichettata da un titolo, essa resta sempre inevitabilmente “imprigionata”, vincolata, mantenuta, conservata, salvaguardata nel sensibile, nella pietra, nel bronzo, nel colore, nel suono. Non si tratta tanto del mitologico estrarre dalla pietra una forma che nella pietra è intrinseca e nascosta, quasi come se l’artista fosse colui che ha lo sguardo capace di penetrare al di là della massa amorfa del marmo per vedervi nascosta una forma da liberare.

La forma del sensibile

Si tratta, invece, di qualcosa di ben più profondo: ciò che l’artista fa, pro-duce, porta alla presenza non è una forma nella pietra, ma una forma della pietra, non un significato nascosto nella pietra che deve essere liberato ed espresso grazie alla creazione artistica, ma un significato che resta intimamente proprietà della pietra, un significato che appartiene alla pietra e che in essa si ritira. Nessuna opera d’arte, allora, può essere un significato impresso nel sensibile. Avremmo fin dall’inizio perso il senso di un’opera d’arte se cercassimo in essa la figurazione di un significato. Se guardo l’Annunciazione di Simone Martini per cercare una raffigurazione cromatica di un significato religioso, tanto vale che mi prenda il Vangelo di Luca e mi legga tale racconto direttamente. L’opera d’arte è sempre un’opera che, in quanto tale, lascia emergere l’essere proprio del colore, della pietra, del suono. Se così non fosse, non sapremmo cosa opporre all’affermazione che Simone Martini usa il colore oro e l’azzurro per rappresentare l’Annunciazione o che Beethoven usa il suono opposto e contrastante del violino e del pianoforte nella Sonata a Kreutzer per esprimere la sopraffazione. Assurdo e fuorviante. L’opera è qualcosa di più che un luogo dell’incarnazione del senso. Accadendo in essa un porsi in libertà e un’appropriazione del momento materiale, si compie di per sé un accadimento di senso.

La necessità del Mondo

Ma, allora, se l’opera, in quanto terra, è già accadimento del senso, in che modo essa è anche Mondo, il disporsi e l’organizzarsi storico dei significati? Che necessità di essere ha il Mondo, se la Terra è ciò che si dà già da sempre dotata di senso? Non è forse una ricaduta nella tradizionale tesi che afferma la mediazione del sensibile con ciò che è dotato di senso? Non è chiaramente questo il senso del Mondo nella concezione heideggeriana dell’opera d’arte, così come non si può assolutamente vedere un parallelo fra Mondo e Terra da un lato e significato e sensibile o forma e contenuto, dall’altro. L’opera d’arte è sempre totalmente Terra e, proprio per questo, è sempre totalmente Mondo. Un’opera d’arte non può essere più o meno tale, a seconda del dosaggio o dell’equilibrio più o meno riuscito di terra e mondo. Nessuna opera d’arte, che sia veramente tale, vede la prevalenza del mondo o quella della terra, perché Terra e Mondo, come essere e pensare, come phýsis e lógos, sono lo stesso.

Abbiamo già detto che il conflitto di Mondo e Terra è, in realtà, co-appartenenza, appartenenza essenziale del Mondo alla Terra e della Terra al Mondo, allo stesso modo in cui in Introduzione alla metafisica Heidegger parla di co-appartenenza di pensiero ed essere, designando questi due termini con il loro nome greco per recuperarli al loro autentico significato, appunto phýsis e lógos. Che cosa significa léghein? Non certo pensare nel senso del cogito moderno, ma cogliere, raccogliere o, meglio ancora, accogliere.

Lógos è il raccoglimento stabile, l’insieme raccolto, e che si mantiene in se stesso dell’essente: vale a dire l’essere. … Phýsis e lógos sono la stessa cosa. Lógos …: ciò che è essente, ciò che sta in sé ben eretto e caratterizzato, è in sé e da sé raccolto e si mantiene in tale raccoglimento. (M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1968, p. 139)

Accogliere il sensibile

Ma se l’identità di lógos e phýsis è così originaria, altrettanto lo è la differenza e la separazione. Nell’accogliere non c’è solo la semplice accettazione, ma anche la presa di posizione nei confronti di ciò che si mostra, un ricevere ciò che appare portandolo a fissarsi in una posizione, l’apprensione come l’arrestare, lo stabilizzare in un senso ciò che sorge sempre di nuovo (phýsis). L’apprensione è la presa di posizione dell’uomo nei confronti dell’essere, è l’evento in forza del quale l’uomo entra, come essente, nella storia, perviene lui stesso all’essere, l’accadimento grazie al quale si fa custode dell’essere.

Se l’evento ontologico in quanto tale è l’identità-differenza di essere e pensare, l’evento ontologico dell’opera d’arte è l’identità-differenza, il conflitto, di Terra e Mondo. L’opera è pro-duzione della Terra, il porre-qui la terra come l’emergente-custodente, una terra, un sensibile che non prende il senso dall’esterno perché esso stesso è già accadimento del senso, ma proprio in quanto pro-duzione della Terra è anche es-posizione del Mondo, celebrazione di questo accadimento del senso, ripresentazione autentica di esso, presa di posizione davanti a esso, scelta, rifiuto, apertura ogni volta di un’epoca storica.

L’inesauribile rinnovarsi del nuovo

Nella misura in cui l’opera d’arte lascia che il sensibile sia nella pienezza e nella densità del suo essere, impegna il Mondo alla responsabilità del suo apparire, si consegna all’apparire nella storia e alla ridefinizione dei rapporti. La presenza del sensibile autenticamente tale è, di per sé, l’apertura di un mondo storico in cui ogni precedente rapporto viene rinnovato, ogni precedente valore viene trasvalutato. È nell’aprirsi del Mondo che la Terra appare, ma è anche allora che essa corre il rischio di perdersi nell’Aperto, compiendosi come significato, appagandosi in esso. In ogni accogliere c’è il rischio che il gesto del donare, di cui l’accogliere è il correlato, si nasconda, venga requisito, nel dono (ogni nuovo è destinato in sé a invecchiare). L’opera d’arte è ciò in cui il donare (il presentarsi del sensibile come propriamente è) ha la forza inesauribile di esporsi senza fine al rischio dell’accoglienza, ciò in cui il nuovo continuamente si rinnova. Se così è, allora sempre l’opera d’arte, nel suo essere-prodotta sarà Terra, sempre l’opera d’arte, nel suo essere-es-posta sarà Mondo.

Così interpretati, Terra e Mondo possono sembrare una versione più immaginifica e mitologica della classica contrapposizione fra un’estetica della creazione e un’estetica della ricezione. È chiaro che così non è. L’Ur-streit fra Terra e Mondo è della stessa natura di quello fra essere e pensare. Come quest’ultimo non ha nulla della classica contrapposizione fra oggettivo e soggettivo, così il primo è lontanissimo da ogni opposizione di estetiche. Che, tuttavia, Terra e Mondo si aprano l’una nel versante del produrre, l’altro nel versante dell’accogliere e che, proprio per questo, siano lo stesso, lo spazio, il luogo in cui l’opera propriamente viene all’essere, sembra del tutto certo, se pensiamo che Heidegger stesso sottolinea il fatto che l’opera, accanto all’esser-prodotta, richiede anche necessariamente l’essere-accolta. La pro-duzione della terra richiede per essenza di essere salvaguardata nell’es-posizione, nell’apertura e nella fondazione di un Mondo.

Come è impossibile che un’opera ci sia senza essere stata fatta (cioè: come l’opera richiede in linea essenziale chi l’ha fatta) così, quale fattura, essa non può sussistere senza chi la salvaguardi. Il fatto che un’opera  non trovi i suoi salvaguardanti, o non li trovi immediatamente conformi alla verità che si storicizza nell’opera, non significa affatto che l’opera resti opera anche senza i salvaguardanti. In quanto opera essa resta sempre riferita ai salvaguardanti, anche quando e proprio quando essa ne è semplicemente in attesa, cattivandosi e attendendo il loro ingresso nella sua verità. La stessa dimenticanza in cui un’opera può cadere non è un nulla; essa è ancora una salvaguardia. Vive dell’opera. Salvaguardia dell’opera significa: star dentro nell’aprimento dell’ente storicizzandosi nell’opera. Ma lo star dentro proprio della salvaguardia è un sapere. Ma il sapere non consiste nella semplice conoscenza e nella rappresentazione di una cosa. Chi sa veramente che cosa sia l’ente, sa che cosa vuole nel mezzo dell’ente. (OPA, 51)

Due dicotomie irriducibili: Terra-Mondo e materia-forma

Chiudiamo, allora, con degli esempi. Si può parlare di opere prevalentemente terrose o di opere prevalentemente mondane solo se identifichiamo, a mio avviso in modo non corretto, terra con materia o contenuto, per cui un’opera terrosa sarebbe un’opera in cui la materialità, il sensibile, vengono avanti senza rigore, quasi prorompendo anarchicamente, deformando qualsiasi forma nel compiacimento indisciplinato e fine a se stesso del materico; si può parlare, invece, di opera mondana allorché prevale la ricerca leziosa, razionale, manierista del raffinato e del bello, un compiacimento esteriore e altrettanto fine a se stesso del formale. Questo è, per molti aspetti, sicuramente vero, ma se usiamo tale dicotomia siamo ancora dentro le tradizionali categorie estetiche di materia e forma, di significato ed espressione. Credo che per Heidegger tale impostazione non sia corretta. Per lui Terra e Mondo non sono materia e forma.

Prendiamo due opere musicali: l’Ouverture dell’Oro del Reno e il primo movimento della terza sinfonia di Mahler e chiediamoci che cos’è Terra e che cos’è Mondo. Falliremmo subito l’incontro con queste due opere d’arte se cominciassimo a cercare in esse la rappresentazione di qualcosa, delle acque nel loro valore primordiale per quanto concerne l’Oro del Reno, della forza genesica della natura per quanto riguarda la sinfonia mahleriana. Per quanto abbiamo detto fin qui, opera d’arte non è mai la figurazione sensibile di un’idea, la sua incarnazione in una determinata materia, in questo caso nella materia sonora. È il suono, solo e sempre il suono, o meglio i suoni, nella loro infinita possibilità e ricchezza che un’opera d’arte musicale sempre produce.

L’Oro del Reno di Wagner

Il lunghissimo e profondo accordo in Mi bemolle dei contrabbassi dell’ouverture wagneriana non è affatto la rappresentazione di un mondo acquatico primordiale, ma è puro suono, non un suono che rappresenta l’acqua, ma un suono che è acquatico, un suono che nell’aggiungersi dei fagotti, nell’irrompere dell’arpeggio ascendente dei corni, nel fluire stesso, quasi nell’ondeggiare della musica, delle note, non evoca mai l’acqua, perché esso stesso la presenta, esso stesso è acqua, un flusso di suoni, un’ondeggiare sonoro, un’intima possibilità stessa del suono che questa grande opera d’arte pro-duce, pone-qui, porta alla presenza, ma, nel contempo, conserva nella proprietà del suono, vincola alla materia sonora, senza permettere di passare da essa alla rappresentazione delle acque. Se la terra è la totalità e la molteplicità del sensibile, essa è anche acqua, come in questo caso, ed è proprio l’acqua che Wagner presenta, ma lo fa non allegoricamente o rappresentativamente, evocando, descrivendo richiamando tale elemento, bensì portando alla presenza tutta la liquidità e con essa l’irruenza di forza primordiale del suono.

La Terza Sinfonia di Mahler

Anche la sinfonia di Mahler non può essere interpretata allegoricamente, malgrado lo stesso autore l’abbia infarcita di titoli, di interpretazioni simboliche, di note per l’ascoltatore. Ci interessa molto poco sapere che Mahler intende esprimere la forza primordiale della natura germogliante, il succedersi delle stagioni dall’inverno all’estate, l’irrompere della quotidianità e del banale fin nelle più intime fibre dell’essere. Questo è razionalismo estetico, didascalia diseducatrice, un invito all’ascolto che equivale a un invito a cena, un invito a consumare la musica di Mahler, ammannita in un’invitante pietanza di significati ben cotti e insaporiti che noi dobbiamo solo saper gustare e apprezzare. E il suono, i suoni di questa sinfonia? Meri mezzi, strumenti per dire ciò che altrettanto bene o forse meglio si può dire in un’opera di saggistica.

Ascoltiamoli, invece, questi suoni, cogliamo tutta la ruvidezza sonora del motivo di marcia in Fa minore che apre il movimento, la profondità, il carattere ovattato e ciononostante eloquente e ricco di nascosta potenza degli accordi degli ottoni che si succedono, il Re minore cupo, ringhiato dagli ottoni, e altri rumori, sonorità, latrati di corni, stridore di legni, profondi rombi di percussione, evocazioni larvali di bassi, la presenza rozza, volgare del trombone e, in opposizione a questo coacervo, a questo brodo primordiale di suoni, il fluttuare di leggerezze sonore, trilli di archi, assolo di violino, acuti canti d’uccelli, quasi come forme sonore allo stato nascente che si stanno staccando dal brodo di suoni del sottofondo. Non abbiamo bisogno di (anzi non dobbiamo proprio) uscire dalla terra sonora per rappresentarci la genesi del mondo. Questa musica non rappresenta nulla, il suo tema non è l’origine del mondo. Come ogni opera d’arte, anche questa ha per tema il sensibile, in questo caso il suono e solo il suono ed è la materia sonora che è caotica nel modo che solo essa sa essere, è la materia sonora che è genesica, nel modo che solo essa conosce, è la materia sonora che ha in sé la dolce e struggente infelicità della determinazione nel modo che essa sola conosce.

L’incontro con l’opera come esperienza fondante

Mahler, come Wagner, pro-duce suoni, li porta all’essere, alla presenza, ma come ciò che richiede fedeltà e che non permette distrazioni, allegorie, sostituzioni; porta alla presenza la Terra come l’emergente-custodente. E il Mondo? È lo stesso della Terra: solo se avremo accolto e salvaguardato la Terra, solo se ci saremo mantenuti saldamente fedeli alla forza e alla densità del sensibile che l’opera d’arte lascia essere, il nostro incontro con essa avrà aperto un nuovo Mondo destabilizzando tutti i vecchi valori. L’incontro con l’opera, nella misura in cui sa accogliere la terra, il sensibile, è sempre un profondo rinnovamento, una radicale rifondazione. Il Mondo che l’opera apre è tanto poco un Mondo soggettivo, arbitrario e immaginario, perché è il Mondo nel quale il senso che la terra pro-duce si storicizza, quanto il pensare che pensa l’essere, nell’analisi heideggeriana del frammento parmenideo, è tanto poco un pensiero rappresentativo, un cogito cartesiano, perché è il pensare in cui l’essere storicamente si dà.

 

Un pensiero riguardo “Cosa, opera e verità nell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger – 7 (fine)

  1. Davvero complimenti. Questa ottima analisi mi ha fatto leggere con agevolezza le tre conferenze qui considerate. Davvero difficile il passaggio tra forma e tratto, ma che tu hai saputo ben illuminare. Grazie.

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