Introduzione
Le nozioni di univocità e analogia dell’essere appartengono alla filosofia medievale, al cui interno vengono elaborate in vista soprattutto del problema della conoscenza dell’essenza di Dio.
Semplificando molto, la questione era posta in questi termini: vi è identità di fondo, pur nel rispetto delle incommensurabili differenze specifiche, fra l’essere di Dio e quello delle creature?
L’ens increatum et creator e l’ens creatum, in quanto entrambi entia, sono pensati, riguardo al loro essere, univocamente oppure l’incommensurabilità si estende allo stesso essere, per cui solo di Dio l’essere si dice propriamente mentre delle creature si dice in un senso diverso (assolutamente diverso e, allora, si parlerà di equivocità, relativamente diverso e, allora, si parlerà di analogia)?
I sostenitori dell’analogia erano in particolare preoccupati di salvaguardare due esigenze ritenute irrinunciabili: da un lato, quella di assicurare inequivocabilmente la differenza fra uomo e Dio, l’assoluta dipendenza della creatura dal creatore, dall’altro, quella di non portare tale differenza fino alla diversità pura e semplice (assoluta equivocità), perché in tal caso Dio sarebbe stato assolutamente inconoscibile per l’uomo. Era essenziale mantenere un riferimento di natura analogica fra l’essere della creatura e l’essere del creatore, per non cadere nell’afasia della teologia negativa. Al contrario, i sostenitori dell’univocità ritenevano che senza un’identità preliminare dell’ens (concepito come un qualcosa di comune e assolutamente indeterminato) mancasse il presupposto stesso per ogni conoscenza positiva di Dio. Molto schematicamente possiamo individuare in S.Tommaso e nella scuola tomista i sostenitori dell’analogia entis, in Duns Scoto e negli scotisti i sostenitori dell’univocità dell’essere.
Anche se non ci occuperemo di questa controversia, che ho ricordato solo per inquadrare storicamente il problema, è, tuttavia, necessario comprendere bene i concetti di analogia e di univocità, dal momento che rappresentano un punto di riferimento teorico costante e basilare per Gilles Deleuze.
Cominciamo con il leggere due brevi citazioni da Differenza e ripetizione:
C’è sempre stata una sola proposizione ontologica: L’Essere è univoco. E c’è sempre stata una sola ontologia, quella di Duns Scoto, che assegna all’essere una voce unica. Si è fatto il nome di Duns Scoto, poiché egli seppe portare l’essere univoco al più alto grado di sottigliezza, a rischio di cadere nell’astrazione. Ma da Parmenide a Heidegger, è sempre la stessa voce a riproporsi, in un’eco che forma da sola tutto il dispiegarsi dell’univoco. (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p.52 [da ora in avanti DR, numero pagina).
L’essenziale dell’univocità non è che l’essere si dica in un solo e stesso senso (questo sarebbe monismo) ma che si dica, in un solo e stesso senso, di tutte le sue differenze individuanti o modalità intrinseche…. L’Essere si dice in un solo e stesso senso di tutto ciò di cui si dice, ma ciò di cui si dice differisce: si dice della differenza stessa (DR, 53)
Solo se tutte le differenze sono differenze nello stesso senso, senza che nessuna, in altri termini, reclami per sé l’essere in senso proprio, pretendendo, con ciò, di rappresentare un’unità di senso e di riferimento per le altre differenze, tutte le differenze possono essere differenze effettive. Tutte le cose sono “essere”: non c’è differenza in rapporto alla partecipazione delle cose all’essere, tale da autorizzare una gerarchia di valori.
Per ora basti rilevare la centralità del concetto di univocità dell’essere nel pensiero di Deleuze e il riferimento non solo a Duns Scoto, ma a tutta una corrente di pensiero che si estende da Parmenide, il primo grande sostenitore dell’univocità dell’essere (ricordiamo che contro Parmenide, o meglio, contro un’interpretazione del senso univoco dell’essere in Parmenide, elaboreranno la propria filosofia prima Platone e poi Aristotele e che proprio quest’ultimo è storicamente indicato come il primo assertore dell’analogia dell’essere) fino a Heidegger (fino al Novecento, quindi, passando per Spinoza e Nietzsche). Non a caso Heidegger “riprenderà” Parmenide e il senso dell’essere che il pensatore di Elea ha enunciato.
Tanto Tommaso d’Aquino quanto Duns Scoto enunciano la loro concezione dell’essere, analogico o univoco, richiamandosi all’autorità di Aristotele. Né la posizione di Tommaso né quella di Scoto, naturalmente, possono essere ricondotte tali e quali ad Aristotele. Al filosofo greco, infatti, era del tutto estraneo il presupposto fondamentale di tutta la filosofia medievale, la bipartizione ontologica, scandita dal concetto di creazione, fra il creatore e le creature, e con ciò erano estranei tanto lo sfondo concettuale quanto la motivazione etica della disputa medievale. Tuttavia, nella metafisica di Aristotele viene posto con grande rigore teorico il problema dei molteplici modi in cui l’essere si dice, sicché è a questa fonte che dobbiamo innanzitutto rivolgerci.
Univocità, equivocità e analogia nella filosofia greca
Vediamo, allora, cosa dice Aristotele in due celebri passi tratti dalla Metafisica:
L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla. (Met. IV, 1003a 33-37)
Parlando, poi, dell’uno e del suo essere non sostanza ma predicato scrive:
… l’essere e l’uno sono i predicati più universali; … l’uno non può essere un genere per le stesse ragioni per cui né l’essere né la sostanza possono essere un genere. (Met. X, 1053b 20-24)
Nel primo capitolo delle Categorie leggiamo una fondamentale distinzione fra sinonimia, omonimia e paronimia. Noi ci soffermeremo solo sulle prime due:
Sinonimia:
Quando due nomi indicano, sotto un determinato riguardo, la medesima cosa. Es.:
- l’uomo e il bue sono sinonimi in quanto entrambi animali;
- la specie, l’individuo e il genere, se nella stessa colonna, sono fra loro sinonimi.
Omonimia:
Quando solo il nome è comune, ma la definizione corrispondente al nome è diversa. Es.:
- due persone che si chiamano con lo stesso nome;
- due cose che si chiamano con lo stesso nome come il termine cane, riferibile sia all’animale che a una parte del fucile;
- due cose fra loro assolutamente diverse, ma che intrattengono un rapporto analogico, per cui dell’uno il nome è detto in senso proprio, dell’altro in senso figurato (i piedi di un uomo, i piedi di una montagna).
- animale detto di un uomo in carne e ossa e di un uomo dipinto.
Allora due termini sono sinonimi se sono in grado di accogliere la medesima predicazione essenziale (uomo e bue accolgono allo stesso modo il predicato animale), altrimenti sono omonimi (uomo in carne e ossa e uomo dipinto accolgono diversamente lo stesso predicato, essenzialmente il primo, accidentalmente il secondo).
Fissata questa distinzione, cerchiamo di capire come possiamo usarla per chiarire il problema che stiamo trattando, cioè il modo in cui l’essere si dice di ogni cosa.
Prima di Aristotele
Il problema dell’essere in quanto essere, cioè il problema ontologico nella sua specificità, si pone per la prima volta in modo esplicito con Parmenide, per il quale l’essere è il puro essere, il puro positivo che si contrappone senza mediazioni al puro negativo, il non essere. Il pensatore di Elea pone drasticamente l’alternativa: se c’è l’essere non può esserci il non-essere. Il non-essere è impensabile e indicibile (pensare è sempre e solo pensare l’essere, dicibile è sempre e solo qualcosa che è). Tale concezione ontologica viene definita una concezione integrale e univoca dell’essere, perché l’essere si dice in una sola accezione e in modo assoluto. A essa corrisponderà in modo altrettanto assoluto un’unica accezione del non essere.
Ora, se l’essere si dice con lo stesso senso di ogni cosa che è, nasce il problema di spiegare il divenire, il mondo fenomenico, il quale, nella molteplicità e diversità del suo manifestarsi, sembra implicare in vario modo il non essere: se l’essere ha un solo senso, ogni differenza è illusoria. Ed è proprio l’illusorietà dei fenomeni e la fallacia dell’esperienza che li attesta a essere affermata da Parmenide e dalla scuola eleatica: la realtà è solo come noi la pensiamo con il lógos e non come la sperimentiamo con i sensi.
La prima grossa riforma dell’ontologia eleatica avviene con Platone: senza dilungarci più di tanto sulla concezione platonica, diciamo schematicamente che il filosofo ateniese contrappone al blocco unico e immutabile dell’essere parmenideo un essere composto da una molteplicità di Forme o Idee. Ma condizione necessaria affinché una molteplicità sia effettiva e non illusoria è che le idee siano diverse l’una dall’altra, ossia che all’essere di ogni idea appartenga anche il non essere le altre idee. Nell’essere monolitico di Parmenide vengono introdotte le differenze ideali e con le differenze ideali viene introdotto il concetto di relazione. Il problema dell’essere e del suo senso viene a precisarsi come un problema di rapporti fra identità e differenza. Platone salva la molteplicità ma non il mondo sensibile, che rimane un mondo di ombre, un mondo che, se non è del tutto illusorio, non è nemmeno pienamente reale: è un qualcosa di intermedio fra essere e non essere.
Aristotele
Aristotele, con la sua concezione della sostanza come sinolo di materia e forma e il conseguente rifiuto della separatezza delle idee dal mondo sensibile, orienta l’ontologia in una direzione che possiamo definire “realistica”, perché ispirata dall’intenzione di salvare la realtà del mondo fenomenico. L’essere, per lui, ha molti significati e cosí, correlativamente, il non essere. L’essere è la totalità delle cose pensabili ed esperibili, senza eccezioni.
Posta così la questione, sembra che Aristotele cada nell’eccesso opposto a quello di Parmenide: se per quest’ultimo l’essere ha un solo senso (univocità), per Aristotele l’essere ha molteplici sensi, è un termine equivoco, perché di tutte le cose si dice che sono, ma per ognuna l’essere si dice in modo diverso.
Se ricordiamo la definizione di omonimia, sembra che possiamo dire, senza ombra di dubbio, che l’essere si dice in modo omonimo di ogni cosa. Il concetto di omonimia e il suo nesso con quello di analogia, tuttavia, deve essere precisato, anche perché, come è detto in Met. IV, per Aristotele l’essere non si dice per mera omonimia. A questo proposito è molto importante leggere un passo dell’Etica Nicomachea riguardo ai modi in cui si dice il Bene. Dopo aver negato che il Bene sia un’idea, cioè un universale, e che come tale si dica univocamente delle diverse cose buone (in termini aristotelici: il bene non è un genere), Aristotele si chiede se è allora un omonimo e scrive:
Ma in che senso, allora, si predica il Bene? Infatti non assomiglia ai termini che hanno casualmente lo stesso nome. Ma è dunque omonimo per il fatto che tutti quanti i beni procedono da un solo bene o ad un solo bene concorrono? O non è piuttosto per analogia? Infatti quello che la vista è nel corpo, l’intelletto è nell’anima, eppertanto un’altra cosa lo è nell’altra. (Et. Nic. I,4 1096b 26-29)
Qui vengono definiti tre tipi di omonimia:
- Gli omonimi in senso stretto, termini che denotano realtà che non hanno nulla in comune se non il nome; Aristotele li chiama omonimi ἀπὸ τύχης (apò týches) (per mera casualità).
- Gli omonimi ἄφ’ἑνός (aph’henós) o πρὸς ἕν (pròs hen): termini che denotano, sì, realtà diverse, ma non totalmente diverse, bensì che procedono da un unico principio o che convengono a uno stesso fine. È questa la predicazione dell’essere che solo in un senso lato si può chiamare analogica (l’analogia ha a che fare con la somiglianza e la somiglianza è ciò che è intermedio fra la pura identità e l’assoluta diversità: in questo caso cose diverse hanno un identico riferimento), diversa dal terzo tipo di omonimia, che riguarda, invece, l’analogia in senso stretto.
- L’omonimia per analogia, basata su un’identità di rapporti del tipo la vista sta al corpo come l’intelletto sta all’anima, per cui possiamo chiamare l’intelletto la vista o l’occhio dell’anima, oppure, la sera sta al giorno come la vecchiaia sta alla vita, per cui la vecchiaia viene detta la sera della vita.
Aristotele ci fornisce un esempio del modo in cui l’essere si predica (omonimia πρὸς ἕν). La parola “sano”, scrive in Met. IV, si dice in modo diverso e precisamente in quattro modi, ma tutti hanno, come riferimento, un unico termine che articolano in modo ogni volta diverso (nel nostro caso è la salute dell’organismo). Vediamo questi quattro sensi:
- Sano in quanto è in grado di ricevere la salute: es. il corpo è sano, lo possiamo dire in quanto ha accolto in sé ed è in grado di accogliere in sé lo stato di salute.
- Sano in quanto produce salute: es. una medicina (o un’erba medicinale) è sana; non intendiamo dire che la pianta si trova in uno stato di non malattia, ma che quell’erba è sana perché in certi casi rende sani.
- Sano in quanto è sintomo di salute: es. il colorito di un viso è sano; non è certo al colorito che riferiamo la salute, perché un colore non può essere né sano né malato. Ciò che intendiamo è che un determinato colorito del viso è sintomo, segno di salute.
- Sano in quanto conserva la salute: es. una passeggiata è sana; non significa che una passeggiata sia un sintomo di buona salute, né che renda sani, né può essere intesa come qualcosa di non malato. Una passeggiata viene detta sana nella misura in cui contribuisce al mantenimento e all’incremento della salute.
Allora, “sano” si dice del corpo, dell’erba medicinale, del colorito del viso e della passeggiata; tutte e quattro queste cose sono sane ma non possono essere dette sane allo stesso modo. L’esser-sano, cioè la salute, si dice di molte cose fra loro diverse, si dice come un alcunché che tutte queste cose hanno in comune, ma non è una comunanza analoga a quella che il genere esprime nei confronti delle specie, non si tratta di sinonimia, perché il senso in cui le cose sono sane è di volta in volta diverso; non è neppure una comunanza meramente omonima, cioè una semplice identità di nome per cose fra loro assolutamente diverse. Si tratta, invece, di una comunanza di riferimento: i significati di salute, menzionati al secondo, al terzo e al quarto posto, sono riferiti in modo ogni volta diverso all’esser sano menzionato al primo posto. Questo primo significato è necessariamente sottinteso da ciascuno degli altri: l’erba medicinale perché produce la salute, il colorito del viso perché indica uno stato di salute, la passeggiata perché conserva la salute.
Analogia come riconduzione del diverso all’identità
Qual è il carattere dell’unità nella quale sono contenuti i diversi significati di sano? Si tratta di determinare una molteplicità, di raccogliere i diversi sotto un’unità. Aristotele definisce nel V libro della Metafisica il concetto di differenza:
Differenti (διάφορα diáphora) si dicono quelle cose che, pur essendo diverse, sono per qualche aspetto identiche: identiche non solo per numero, ma anche per specie, per genere o per analogia. (Met. V, 1018a 12-13, ed. cit. p. 219)
Oltre all’unità numerica, a quella specifica e a quella generica, Aristotele fa riferimento anche all’unità dell’analogia. Ritornando al nostro esempio della parola “sano”, possiamo dire che tale unità si ha quando una molteplicità di significati diversi si riferisce a un significato primo (la salute dell’organismo), il quale svolge quindi una funzione di “sostegno” per tutti gli altri. I diversi significati corrispondono (ἀναλέγειν analéghein) al primo e lo soddisfano ognuno secondo un determinato punto di vista.
L’ ἀναλέγειν (il corrispondere) è un ricondurre il diverso all’identità, un riportare i molti all’uno. Questa identità, questa unità è anche un qualcosa di primo, un qualcosa rispetto al quale i significati diversi (che ora possiamo chiamare analogici) sono dei significati secondi o derivati. Il primo è il significato fondamentale, che sorregge e guida tutti gli altri, è il punto a partire dal quale il significato che a esso si riporta diventa legittimo. È l’arché (ἀρχῆ). L’essenza dell’analogia è il riportare una molteplicità a un’origine unica. Tale universalità, lo abbiamo detto, non è l’universalità generica, ma un koinón ti (κοινόν τι), è un alcunché di comune che si caratterizza come un modo dell’identità per mantenere in un’unità i molti che gli corrispondono.
Anche il modo in cui l’essere si dice degli enti nella loro molteplicità ha lo stesso carattere analogico: l’essere si dice in modi molteplici, ma tutti in riferimento a un unico senso. Qual è il significato fondamentale dell’ ón aristotelico, quello che sorregge e guida tutti gli altri? Aristotele lo individua nell’ousía (οὐσία sostanza), la prima categoria, la categoria che esprime nel modo più proprio il che cos’è.
Vediamo brevemente di chiarire il senso della sostanza come significato fondamentale dell’essere. La parola ente contiene in sé due significati, quello di essenza e quello di essere. Serviamoci, come esempio, della seguente frase “La pianta che si trova qui è verde”. In senso assolutamente generale, possiamo individuare tre tipi di enti:
- la pianta è ente
- il verde è ente
- l’esser-qui è ente (è una determinazione di luogo)
Pianta, verde e qui sono tre determinazioni esistenti, perciò sono tre enti. Ma solo nella frase la pianta è ente l’esser-ente è detto in senso proprio, mentre nelle altre due frasi l’esser-ente è detto in senso derivato o analogico (accidentale è il termine tecnico che Aristotele usa). Questo perché nell’esser-ente della pianta io intendo qualcosa che è in modo tale che per essere non ha bisogno di altro cui inerire; nell’esser-ente del verde, invece, o del qui vi è la necessità di inerire o di “cadere sopra” qualcosa. Il verde si dà sempre come qualcosa che è verde, il qui si dà sempre come qualcosa che è in questo determinato posto. Il verde e il qui sono sempre in qualcosa d’altro da se stessi (ognuno di essi è ens in alio, non in sé sussistente). Ciò che è nel modo di non aver bisogno d’altro a cui inerire è la sostanza, ciò che, invece, è solo nel modo dell’essere in altro è l’accidente.
Conclusione
Ora possiamo capire meglio il senso dell’analogia entis nel Medioevo: il Dio della fede cristiana, pur essendo creatore del mondo, è assolutamente diverso e separato dal mondo stesso. Tuttavia è ente nel senso più alto del termine, è summum ens. Ma enti sono anche le creature che pur differiscono infinitamente da lui (la creatura è ens finitum). Come possono ens finitum ed ens infinitum essere detti entrambi entia, essere compresi entrambi sotto lo stesso concetto di essere?
L’analogia entis, nel modo in cui l’abbiamo illustrata prima, è la risposta a tale domanda. L’essere fondamentale, l’essere in senso proprio è solo quello di Dio, mentre l’essere delle creature è essere solo in senso derivato, in quanto fa riferimento all’essere di Dio, è essere in senso, appunto, analogico. Possiamo capire, anche, qual è la ragione delle critiche che i filosofi della differenza rivolgeranno alla dottrina dell’analogia entis: tali critiche le vedremo in modo dettagliato nei prossimi articoli. Per ora basti in generale notare che, entro tale prospettiva filosofica, la differenza non ha un proprio statuto autonomo, perché o è differenza specifica, differenza interna a un’identità, quella generica, semplice determinazione dell’identità, in forza della quale ciò che attraverso la differenza si viene a indicare è un mero esemplare dell’identità, oppure è differenza analogica, in forza della quale il molteplice ha una dignità ontologica derivata e dipendente da quella dell’identità a cui fa riferimento.
Ricordiamo infine che il modo in cui l’univocità viene intesa, al di fuori dell’univocità intragenerica e intraspecifica, è quella dell’assoluta uniformità che abbiamo visto attribuire all’ontologia parmenidea, un’univocità attraverso la quale la differenza viene non tanto depotenziata, come nella dottrina dell’analogia entis, ma semplicemente negata. Ma non è questo il senso in cui Heidegger parla di identità, appoggiandosi all’autorità della parola originaria di Parmenide, né quello al quale Deleuze fa riferimento quando si richiama a Duns Scoto, a Spinoza e a Nietzsche come filosofi dell’ens univocum. Duns Scoto, uno dei punti di riferimento, è sì il filosofo dell’univocità dell’essere, ma è anche, e nello stesso senso, il filosofo dell’haecceitas, dell’individualità o dell’individuazione come prima istanza ontologica.