1 – L’immagine della realtà naturale da Aristotele alla fisica moderna. Caratteri generali della “Fisica” di Aristotele

[Questo articolo, come i due che lo seguiranno, riprende, con sostanziali modifiche di stile e con rilevanti integrazioni di contenuto, il saggio già apparso su questo sito dedicato al concetto di spazio in Aristotele]

La fisica di Aristotele si fonda sul richiamo all’esperienza, all’evidenza immediata. Questo richiamo all’evidenza è il merito e il cruccio della filosofia naturale dello Stagirita. È come se il filosofo desse forma concettuale alla nostra conoscenza immediata del mondo. Un mondo reale, vissuto, qualitativo. Antitetico a quello della fisica matematica. Pensiamo, per contrasto, a Galileo: il suo mondo “smentisce” l’esperienza immediata, vuole disfarsi delle qualità. Crede solo nella verifica sperimentale, nella misura, nelle quantità. La scienza moderna prende vita con la più clamorosa smentita di ciò che i nostri occhi attestano: non è il Sole che gira attorno alla Terra, ma la Terra che gira attorno al Sole. Eppure per molti secoli l’uomo ha creduto il contrario. Il mondo aristotelico, agli occhi della scienza moderna, anzi, della scienza fin dal suo sorgere, appare falso e illusorio. Un ostacolo alla verità scientifica, come effettivamente è stato. Lo dimostra con la consueta intelligenza Bachelard nel suo fondamentale libro intitolato La formation de l’esprit scientifique (La formazione dello spirito scientifico). Eppure Aristotele ha trovato anche difensori e fra i più inaspettati. Galileo stesso, ad esempio. Guardate cosa scrive il grande pisano a Liceti, medico ligure, seguace di Aristotele e delle sue teorie astronomiche:

voglio aggiungere per ora questo solo, che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci … molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno esplicando dai suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché nulla alterazione vi si era allora veduta, indubitamente egli, mutando opinione, direbbe ora il c-ontrario. (cit. in Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. Vol. II: Il Cinquecento – Il Seicento, Garzanti, Milano, 1970, p. 210)

Chiaro e inequivocabile. Il disprezzo del grande scienziato non va ai grandi pensatori (e ricercatori) che, a causa di mancanza di dati, hanno formulato teorie rivelatesi poi sbagliate. Va ai seguaci imbolsiti nella triste attività di compulsare vecchi testi e irretiti dal sacro rispetto del principio di autorità. Alla ottusa e patetica schiera degli epigoni. Non ad Aristotele, grande filosofo e fine naturalista, ma agli aristotelici. Solo a loro. Vale quindi la pena di mostrare la qualità veramente eccezionale della problematica filosofica che lo Stagirita mette in campo sui temi della filosofia naturale.

 

Il filosofo è convinto che l’esperienza immediata dell’uomo sia degna di essere adeguatamente pensata e concettualmente problematizzata. La sua ricerca conduce a una ricca fenomenologia (studio delle forme e delle apparenze) del mondo sensibile. Nel primo libro della Fisica indica subito il suo programma di ricerca mettendo in primo piano il concetto guida del mondo naturale. Concetto-guida: ciò che caratterizza il mondo naturale nella sua essenza e lo differenzia sia dal mondo matematico (che studia le quantità in quanto tali) sia dal mondo metafisico (che studia ciò che è immutabile). Questo concetto guida è il movimento. Il mondo naturale è il mondo del movimento, del mutamento. Entreremo in profondità in questo concetto, che per Aristotele è complesso e variegato. Per ora leggiamo quanto scrive:

poniamo come assunto di fondo della nostra indagine che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza. (Fisica I,2, 185 a 13-14).

Assunto di fondo: le cose che esistono per natura sono in movimento. Ce lo dice in modo inequivocabile l’esperienza. Nulla nel mondo sublunare, così si chiamava il mondo naturale nella concezione aristotelico-tolemaica, appare immutabile. Tutto è in movimento. Tutto è in divenire. Il divenire. È il tema filosofico principale di ogni ricerca fisica secondo Aristotele.

Ma cos’è “fisica” per Aristotele? Da dove deriva questo termine? Dal greco φύσις (physis). Solitamente tradotto con natura, già dai latini. Natura viene da nascor, nasci (nascere), è il participio futuro e indica le cose che nasceranno. Del termine greco conserva poco. Mette l’accento più sul risultato (le cose che nasceranno) che sul processo, il nascere, il venire alla presenza. Il termine greco deriva da φύω (phyo) e indica il principio in virtù del quale qualcosa comincia o cessa da sé dei movimenti o dei mutamenti. Da sé. In modo spontaneo. Non prodotto da qualcosa. In filosofia si usa il termine causa immanente, per indicare che un processo ha in sé la propria causa. Non fuori di sé, come avviene per un processo antitetico a quello naturale, quello della produzione tecnica. Il mondo greco contrappone processo naturale (governato dalla physis) a produzione tecnica (governata dalla techne, τέχνη). Produzione naturale è un fiore che sboccia, produzione tecnica la modellazione di un vaso. Nel primo caso la forza produttiva è immanente o interna, nel secondo caso è esterna: ci vuole un artigiano. La produzione naturale, in questo senso, è un venire alla presenza delle cose per propria forza, un generarsi. Significato più complesso delle mere cose generate racchiuso nel termine natura. Questo “venire alla presenza” è un movimento, un passaggio di qualcosa all’essere. Ciò che “non era” e ora “è” può essere indicato come qualcosa che “diviene”, qualcosa che “è divenuto”. Il latino ha un verbo che deriva direttamente dal greco per indicare il divenire. Il verbo è fieri, presente fio. Indica il divenire, l’accadere. La struttura del divenire e i suoi aspetti essenziali (infinito, spazio, tempo, continuo) è il tema della Fisica di Aristotele ed è ciò di cui parleremo.

 

Qui sorge la prima difficoltà. Ha la forma fastidiosa di una petizione di principio richiestaci da Aristotele. Petizione di principio: qualcosa che, nelle premesse di un ragionamento, viene dato per scontato e, a partire da questa tacita ma indimostrata premessa, si porta avanti tutto il ragionamento. È chiaro che si tratta di una fallacia. Mi porti a ragionare di qualcosa a partire da una premessa indimostrata e quindi forse arbitraria. Un ragionamento che, senza quella petizione di principio, potrebbe prendere tutt’altra strada! Qual è questa petizione di principio che Aristotele ci chiede? Il finalismo, il male radicale del pensiero aristotelico. Credere che i processi naturali, come le produzioni umane, avvengano tutti guidati da uno scopo, siano tutti rivolti a un fine. In greco telos (τέλος). Per Aristotele il divenire non è un movimento cieco e privo di scopo, ma un percorso orientato e diretto verso un fine determinato. Il finalismo, il più ostinato degli ostacoli contro cui la scienza ha fin dall’inizio combattuto. E non solo la scienza. Anche una determinata filosofia. Quella spinoziana, ad esempio. Chi vuol leggere la più implacabile demolizione del finalismo mai scritta ha a disposizione l’Appendice alla Prima parte dell’Etica di Spinoza. Proprio a causa del finalismo la fisica aristotelica è irrecuperabile per il discorso scientifico. Tuttavia con tale pensiero noi dobbiamo fare i conti, se vogliamo comprenderne i tratti essenziali. E non sarà, come vedremo, una perdita di tempo o una mera esercitazione di preistoria della scienza.

 

La natura aristotelica è ovviamente materiale. La materia (hyle, ὕλη) è il sostrato informe in cui si imprimono tutte le determinazioni. Scorretto, ma utile, usare la metafora dell’argilla senza forma, pronta a ricevere tutte le forme di cui è capace, non dalle mani di un artigiano, ma dalla forza produttiva della natura stessa. In altre parti della sua opera Aristotele chiama questo sostrato informe causa materiale. Ma la natura non può ridursi a essere mera materia. Sarebbe affetta da passività e il suo divenire, il suo movimento, apparirebbe incomprensibile. La natura è anche forma (eidos, εἴδος) e scopo, fine (telos). La forma aristotelica non è come l’idea platonica, separata dalla materia, trascendente. Essa è inseparabile dalla materia. Non esiste una forma smaterializzata che di volta in volta si imprime a una materia senza forma. Per questo l’immagine della materia aristotelica come argilla senza forma è scorretta. Un’argilla informe non è in realtà priva di forma. Ha una forma indeterminata, non riconducibile a qualcosa, ma una forma ce l’ha. L’essenziale è che per Aristotele si dà sempre materia formata o forma materiale e la separazione di forma e materia è una distinzione concettuale, non della realtà naturale. Altrettanto inseparabile dalla realtà materiale è il fine. Anzi, è proprio il fine che anima ogni realtà naturale, che rende la natura intelligibile. La più antiscientifica delle convinzioni. La più pervicace delle illusioni dell’uomo, quella che il mondo abbia un senso. Sia come sia, questa è in soldoni la realtà concreta per Aristotele: la stretta e indissolubile unione di materia e forma, animata da uno scopo intrinseco di autorealizzazione. Aristotele ha dato un nome a questa realtà concreta, un nome che in greco significa “tutto assieme”, il sinolo (synolon, σύνολον).

 

Chiudiamo questo prima parte su Aristotele analizzando l’importante concetto di movimento, strettamente connesso, come abbiamo visto, al concetto di divenire. È un concetto complesso, dai molti significati. Polisemico si dice, con termine colto. Il primo, immediato, significato è quello di movimento locale, il cambiare posto, l’andare da un luogo a un altro, il percorrere un tratto di spazio, colmare una distanza, ecc. Questo movimento locale in greco si dice phorà (φορά). È il paradigma, il modello, di ogni altro movimento. Movimento, per Aristotele, è ogni mutamento, ogni passaggio da uno stato a un altro, metabolé (μεταβολή). Ad esempio l’alterazione qualitativa, quando una sostanza assume con il tempo qualità (colore, aspetto, ecc.) diverse. Ciò che “si muove” è l’“aspetto” di una sostanza. In greco di dice alloiosis (ἀλλοίωσις). Oppure la variazione quantitativa, l’accrescersi o il diminuire di una sostanza. La sostanza non varia più nelle sue qualità, ma nelle sue dimensioni, misure, peso, ecc. In greco si può dire aúxesis e fthísis (αὔξησις o φθίσις). Movimento, infine, è anche quello sostanziale, quando una sostanza si genera o si corrompe. È la ghénesis e la fthorá (γένεσις e φθορά). Tutti questi “movimenti” o mutamenti indicano il passaggio da uno stato all’altro: da un luogo a un altro luogo, da un aspetto a un altro aspetto, da una grandezza a un’altra grandezza, dalla vita alla morte, ecc. Ma, dice Aristotele, per passare da qualcosa a qualcos’altro è necessario che la realtà che cambia stato sia in grado di farlo. Una verità matematica, ad esempio, non è in grado di cambiare la sua natura. Essa è sempre ciò che è. Il p greco non può diventare né più grande né più piccolo di ciò che è. Questo perché la matematica tratta delle forme immutabili dell’essere.Non così la natura, che è essenzialmente divenire, cambiamento, mutamento, movimento. La materia che cambia deve avere la possibilità di essere prima una cosa (ad esempio un seme) poi un’altra cosa (ad esempio un fiore o un frutto). Deve essere qualcosa in grado di diventare qualcos’altro. Ma non qualsivoglia altra cosa. Ma qualcosa di connesso a ciò che era prima.

 

Qui Aristotele mette in campo due fra i più noti concetti della sua filosofia, la potenza e l’atto. Ogni mutamento è sempre un passaggio da ciò che una cosa è in potenza (vuol dire avere la possibilità di essere, avere la potenza di diventare) a ciò che è in atto (vuol dire ciò che è effettivamente qui e ora). Potenza in greco si dice dynamis (δύναμις). Concetto la cui effettiva comprensione richiederebbe un intero corso di filosofia. A noi basta una comprensione generica come la possibilità intrinseca che una sostanza ha di diventare qualcos’altro. La potenza è sempre correlata a un atto. Il seme è un germoglio in potenza, un feto è un bambino in potenza, un tronco è un tavolo in potenza, e così via. Naturalmente un seme non può diventare un’automobile, né un tronco può diventare un gatto. Atto si dice in greco energheia (ἐνέργεια). È la realtà effettiva, indica ciò che si è attuato a partire da ciò che era in potenza. Il germoglio che effettivamente vedo è lo sviluppo di un seme, il suo atto, la sua attuazione. Risulta evidente che la realtà che c’è, è sempre la realtà in atto, mentre la potenza è la dimensione del possibile, di ciò che può essere, ma ancora non c’è. Questo è fondamentale. Lo stesso seme, che sopra abbiamo considerato come un germoglio in potenza, preso nella sua realtà effettiva è “seme”, l’atto del frutto che lo conteneva in potenza. Allora due sono i concetti da ricordare per comprendere questo difficile tornante della filosofia aristotelica. Primo: per Aristotele la realtà naturale ha due dimensioni, la dimensione potenziale (indica l’ambito del possibile, di ciò che può essere) e la dimensione attuale (indica l’ambito della realtà effettiva, di ciò che davvero c’è). Secondo: per Aristotele il campo del possibile è molto più ampio di quello del reale: “non tutto ciò che può essere, effettivamente c’è”, ma solo una parte di esso. Drammaticamente e radicalmente diversa sarà la posizione di Spinoza (e della fisica quantistica), per la quale “tutto ciò che può essere effettivamente c’è”. Vedremo tutto questo al momento opportuno.

 

Arriviamo ora a un vero scoglio della filosofia aristotelica, la definizione di divenire (e di movimento) a partire dai concetti di potenza e atto. Ricordo l’interscambiabilità di questi due concetti in Aristotele: il divenire è un movimento e il movimento è un divenire. Ecco lo scoglio! Aristotele definisce il movimento come atto imperfetto. Come è possibile che l’atto, cioè la realtà effettiva, ciò che si è realizzato del possibile sia imperfetto, cioè non finito, non realizzato? Una contraddizione, un passo oscuro. Atto = realizzazione di una potenza, di una possibilità: ciò che è realizzato, che è fatto, finito, condotto fino al termine. Questo è in latino il significato di perfetto, da perficere, condurre a termine. Un atto imperfetto, insomma, è una contraddizione in termini. Almeno così sembra. Quando poi il filosofo dà la definizione di atto imperfetto, le cose si fanno ancora più oscure. Vediamola.

[Il movimento è] l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale (Fisica, 3.1, 201a11)

È normale essere disorientati davanti a questo garbuglio: l’atto di ciò che esiste in potenza = la realizzazione di ciò che non è realizzato! Il movimento è una nozione difficile da cogliere: è come se fosse a metà strada fra la pura potenza e il puro atto. Pensiamo al concetto di “passare”. Cosa si può dire di un corpo che “passa” per un certo punto? Si può “fermare” in una definizione questo concetto di passare? Ciò che passa per un punto, nel mentre “è” o “si trova” in quel punto, non c’è già più. E un istante prima di “trovarcisi” non c’era ancora. È l’essenza del divenire (e del movimento), il passare.

 

Proviamo ad approfondire questa nozione di movimento, applicando la definizione aristotelica: atto incompiuto di una potenza. Se un’automobile deve muoversi da casa (punto A) all’ufficio (punto B), quando è davanti a casa è solo potenzialmente davanti all’ufficio. È in quiete, non in movimento. Quando tale potenza è realizzata, allora l’automobile è effettivamente davanti all’ufficio. Anche in questo caso però è in quiete, non in movimento. Allora, il movimento da casa all’ufficio non è semplicemente l’attuazione di un potenziale presente al punto di partenza, quindi non è semplicemente l’essere arrivati, il trovarsi nel punto di arrivo. Non è nemmeno l’attuazione parziale della potenzialità presente in A. Solo quando si trova in un punto intermedio fra A e B si può parlare di attuazione parziale. In realtà si tratta dell’attuazione di una potenza che si sta ancora attuando. Mentre è davanti a casa, l’automobile possiede di fatto due potenze differenti: la potenza di essere davanti all’ufficio e la potenza di muoversi verso l’ufficio. Essere davanti all’ufficio è la perfezione, il compimento dell’atto, muoversi verso l’ufficio è l’atto imperfetto. La potenza di trovarsi davanti all’ufficio è la perfezione della potenza, la potenza di muovere verso l’ufficio è la potenza imperfetta. Poco sotto la definizione di movimento, Aristotele dà alcuni esempi. Vediamo quello della costruzione di una casa: finché una casa è in corso di costruzione e non è ancora costruita, avvengono i movimenti che tradurranno alla fine in realtà la possibilità della casa.

 

Il movimento è un continuum. E la definizione aristotelica di continuità sarà, come vedremo, di grande interesse e centrale per sciogliere queste difficoltà. Una pura e semplice serie di posizioni fra la casa e l’ufficio non costituisce un movimento dalla casa all’ufficio. Qualunque sia il punto verso cui l’automobile si sta muovendo, ci sarà un punto precedente in cui essa era in movimento. Questo significa che non c’è un qualcosa come un primo istante del movimento. Paradossale, ma, se ci pensiamo bene, vero e incontestabile. Potenza e atto sono due stati e sempre con stati avremo a che fare se vogliamo “fissare” dei punti intermedi di attuazione del movimento. Ma lo “stato” è la negazione del movimento, come l’essere è la negazione del divenire. Il punto di inizio e il punto finale del movimento non mi servono per definirlo. Essendo fermi, nulla hanno a che fare con il movimento. Di tutto questo complicato discorso, riteniamo l’essenziale: il divenire è l’essenza del mondo naturale, un’essenza la cui comprensione si sottrae a ogni tentativo di fissarla in una definizione. Il divenire, per sua natura, non può mai essere realtà semplicemente e totalmente in atto. Non può mai essere una realtà senza potenza, senza possibilità di sviluppo. Ma non può mai essere neppure mera potenza, semplice possibilità priva di realizzazione. Non è mai passaggio dal non essere all’essere, come aveva sostenuto Parmenide, ma privazione di una determinata forma in un soggetto e assunzione, da parte di questo stesso soggetto, di una nuova forma posseduta in potenza. La natura, insomma, nei suoi diversi aspetti, è sempre in atto, ma lo è come potenzialità, come realtà diveniente.

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