Mentre leggevo l’analisi filosofica su Blue Velvet di David Lynch, mi si aprivano, una dopo l’altra, immagini di film e serie tv viste sin dagli anni ’70. Questa riflessione, quindi, nasce da uno sguardo personale e da un lungo processo di sedimentazione culturale, che attraversa la TV, il cinema e la mia formazione.
La prima immagine muove dal nome della protagonista di Blue Velvet: Dorothy. Mi appare inevitabilmente una giovanissima Judy Garland nei panni dell’altra Dorothy, quella del Mago di Oz. Sicura che la scelta di Lynch non sia stata casuale, approfondisco le tematiche care al regista, cerco, appunto e scrivo, così come capita ogni qualvolta ci si trovi a leggere uno scritto analitico filosofico.
E sì, ecco la prima porta che si apre: David Lynch è stato profondamente influenzato dal film ‘Il Mago di Oz’ (il film ha avuto un impatto enorme su registi come Tarantino, Scorsese, Raimi, The Wachowskis e Spielberg). È un riferimento che Lynch ha confermato in molte interviste, dichiarando che quello è il suo film preferito e una fonte costante di ispirazione. E Blue Velvet è, in fondo, una riscrittura oscura della fiaba americana per eccellenza. Dorothy Vallens non è, quindi, solo una coincidenza onomastica: è il riflesso spezzato di Dorothy Gale. Nel 1939 Judy Garland attraversava un tornado per approdare a un mondo colorato; nel 1986 Jeffrey trova un orecchio mozzato e finisce risucchiato in un mondo oscuro e pervaso di violenza. È lo stesso viaggio, ma al contrario. Lynch smonta la fiaba e la trasforma in un incubo.
La seconda immagine appare quando leggo della cittadina fittizia di Lumberton, in cui è ambientato Blue Velvet. ….. Lumberton, non la “città americana tra tante” ma l’archetipo, il simulacro della small-town America … Il film si apre in un sobborgo perfetto, con prati verdi e recinzioni bianche, i fiori, il pompiere sorridente. Il riferimento simbolico è ovunque ed è lo stesso della scena iniziale delle Desperate Housewives, ambientata a Wisteria Lane (Wisteria è il glicine). La voce narrante dell’intera serie è quella dolce e suadente di Mary Alice Young, morta suicidandosi improvvisamente e inspiegabilmente. Mary è una delle casalinghe disperate e dalla sua domanda “perché mi sono uccisa?” prende vita la serie, spezzando l’idillio di Wisteria Lane. Si apre un’altra porta: “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. Il regista è lo stesso, Lynch. La scena iniziale di Blue Velvet– il prato verde e l’infarto del padre – è un manifesto: sotto l’erba, ci sono gli insetti. La scena iniziale di Twin Peaks – le montagne, le cascate, le foreste suggestive, i pettirossi che cinguettano, elemento chiave presente all’inizio delle scene mattutine che rappresentano la quiete apparente di Twin Peaks prima che il mistero si sveli, evocano un’atmosfera surreale in contrasto con le melodie inquietanti per creare un’esperienza sonora unica (musiche composte da Angelo Badalamenti con la collaborazione dello stesso Lynch) – è un altro manifesto: sotto il sacco nero che contiene il corpo di Laura, c’è il mostro. Ho guardato Twin Peaks in diretta, episodio dopo episodio mentre usciva; durante gli anni del liceo avevo visto Elephant Man e durante gli anni dell’università Blue Velvet.
Sia Twin Peaks sia Desperate Housewives, mostrano un’America suburbana che cela oscuri segreti. Desperate Housewives lo fa in chiave satirica (il creatore della serie Mark Cherry ha ammesso che si è ispirato anche a Twin Peaks per l’uso della voce postuma e per la costruzione del mistero centrale), Lynch in chiave inquietante e visionaria. In entrambi i casi c’è l’idea che la felicità alto borghese sia una messinscena e lo spettatore sia chiamato a guardare altrove. In entrambi i casi, la morte di una donna apparentemente perfetta è la chiave per smascherare un’intera comunità.
Quando ho visto per la prima volta Twin Peaks, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di completamente diverso ed è proprio questa sensazione di falsa perfezione che ha aperto la porta più antica. Avrò avuto 11/12 anni quando vidi in TV una serie che ebbe pochissimo successo: The Smith Family, con Henry Fonda. Vista la caratura del protagonista ci si poteva aspettare un successo diverso ma l’ambientazione – fatta di famiglie perfette, quartieri curati, valori dichiarati ma mai indagati — poco si sposava, negli anni di piombo, con le esigenze narrative della società italiana. Tuttavia, si sarebbe scolpita nella mia memoria come un modello che Lynch, anni dopo, avrebbe letteralmente ‘ucciso’. The Smith Family andò in onda negli anni ’70 ma raccontava un’America che guardava con nostalgia agli anni ’50-’60. Non era una serie critica perché proponeva un modello familiare positivo e rassicurante. Il padre, un poliziotto, faceva in modo che le brutture della sua quotidianità non oltrepassassero la soglia della sua staccionata perfetta, del suo giardino perfetto, della sua casa perfetta. Ripensandoci, già allora avevo colto quella patina di irrealtà che Lynch avrebbe poi scelto di smascherare (il regista Ron Howard, che aveva il ruolo di uno dei figli del protagonista nella serie, avrebbe poi interpretato Richie in ‘Happy Days’, serie anch’essa nostalgica e rassicurante).
È probabile che David Lynch conoscesse serie come The Smith Family e altre simili degli anni ’50-’60, anche se non ci sono dichiarazioni dirette in cui citi proprio quella serie in particolare. Il regista è cresciuto in piena epoca Eisenhower, in un’America suburbana ordinata in superficie e inquietante sotto la patina: questo è un tema centrale nella sua poetica. Tuttavia, ha esplicitamente citato il suo interesse per serie come Leave It to Beaver (1957–63), The Donna Reed Show (1958–66), Father Knows Best (1954–60), serie che, come The Family Smith, sono esempi cristallini della famiglia americana idealizzata, quella che Lynch trasforma radicalmente nei suoi film. Quindi sì, Lynch conosceva quel tipo di televisione perché parte della sua infanzia culturale: Blue Velvet e poi Twin Peaks sono risposte disturbate a quell’universo finto e rassicurante.
La sequenza iniziale di Blue Velvet, con il prato verde, a staccionata, il pompiere sorridente sulla camionetta, è un falso opening da sitcom anni ’50 che, però, viene interrotto da un infarto e da una discesa nel sottosuolo. Quelle serie, invece, mostravano case ordinate, genitori saggi, problemi che si risolvevano in 30 minuti, una moralità chiara e rassicurante. La famiglia Smith viveva in una casa con staccionata bianca su Primrose Lane (e la sigla era proprio “Primrose Lane”), l’immagine perfetta del sogno americano suburbano. È stata descritta come “Dragnet”, la combinazione di serie poliziesca con sitcom familiare dove tutto si risolve in mezz’ora. Il detective Smith era determinato a proteggere la normalità della sua famiglia con valori morali chiari, situazioni edulcorate, nessun vero dramma.
Lynch in Blue Velvet (ma anche in Twin Peaks dopo) squarcia letteralmente quella superficie: sotto le villette con giardino curato, dietro i sorrisi dei vicini, dentro le case “per bene” si nascondono violenza, perversione, follia. Il padre di Jeffrey è letteralmente colpito e reso impotente mentre innaffia il prato – un’immagine simbolicamente potentissima della distruzione di quel mondo paterno e protettivo delle sitcom.
David Lynch smonta la TV americana tradizionale svelando cosa ci sia sotto la superficie, compie una trasfigurazione artistica e simbolica in cui il Male e il Desiderio abitano dietro le tende di velluto delle belle case borghesi. I tendaggi, nelle ambientazioni di Twin Peaks (quelli della Loggia Nera) iconici e simbolici e rappresentano un confine tra il nostro mondo e dimensioni misteriose, riflettono la dualità (bene/male, luce/ombra) e la doppiezza, elementi chiave del surrealismo di David Lynch e del concetto di doppelgänge. Anticipano anche il passaggio tra realtà e incubo, come accade a Dale Cooper (TP) e, anche, a Jeffrey Beaumont (BV).
Con Lynch non si torna a casa: There’s no place like home (del Mago di Oz) diventa There’s no escape, anche se per me non è stato proprio così.
Infatti, in questo excursus lungo quasi 50 anni nella mia memoria legata a film e serie tv, posso dire che Lynch è stato una soglia tra infanzia e età adulta. Per questo leggendo la tua analisi, Giuliano, un po’ sono anche tornata a casa: mi è sembrato di rientrare nel salotto della vecchia casa dei miei con la sensazione che qualcosa, sotto il tappeto, respirasse, e qualcosa, dietro alle tende, si nascondesse. E quelle sensazioni, credimi, le ricordo ancora.
Articolo originale e conseguentemente molto interessante
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